Se l’Ucraina riuscirà a reggere l’urto dell’attesa offensiva russa di fine primavera il merito potrebbe essere di un ex paracadutista di sessantadue anni, cresciuto al ginnasio militare, diventato generale, poi capo di stato maggiore e oggi presidente della Repubblica Ceca. Petr Pavel con i suoi studi al Defense Intelligence College di Bethesda, al Royal College of Defence Studies di Londra e con il suo master in relazioni internazionali al King’s College alle spalle, dà l’idea di essere un tipo votato al pragmatismo. Eletto ad ampia maggioranza poco più di un anno fa, non deve aver impiegato molto a capire che l’Unione europea, così divisa e indecisa, non avrebbe mantenuto la promessa di consegnare a Volodymyr Zelensky un milione di proiettili entro marzo. È stato il governo di Petr Fiala, il primo ministro scelto da Pavel, così, a mettersi alla ricerca delle munizioni mancati. Se la montagna non va da Maometto, avrà pensato l’ex generale.
Impresa non facile ma che pare aver avuto successo. La prima linea ucraina comincerà a essere rifornita del prezioso rifornimento rastrellato un po’ ovunque, anche se bisognerà attendere fino a giugno, secondo Euractiv.
L’obiettivo iniziale era portare a casa ottocentomila proiettili: mezzo milione del calibro da 155 mm, quelli sparati dai più diffusi obici Nato, e il restante da 122 mm (questi ultimi sembrerebbero requisiti dalla Turchia in Siria e dal Sudafrica in Angola). Il tutto al prezzo stracciato di duemilacinquecento dollari al pezzo, invece della media di mercato di quattromila. Costo che raggiunge pur sempre una cifra a nove zeri e che ha richiesto una colletta internazionale. E non senza difficoltà.
La Francia si è presto tirata fuori, per annunciare poi poco dopo che avrebbe agito da sola, fornendo decine di semoventi Caesar e l’ottanta percento dei centomila proiettili da 155 mm che conta di produrre entro l’anno. La Grecia ha mal digerito la cooperazione con la Turchia, ma ha comunque scelto di spedire le proprie scorte inutilizzate, mentre l’Italia non ha neppure preso in considerazione di partecipare. Per quanto riguarda l’Ungheria, ça va sans dire.
L’aiuto è comunque arrivato da una quindicina di altri Paesi: il Canada ha contribuito con una trentina di milioni di dollari, così come Svezia e Finlandia, il Portogallo con centootto, la Norvegia con centoquaranta, l’apporto tedesco supererebbe addirittura i centocinquanta, e la Danimarca si è spinta a ben duecentocinquanta milioni. La stessa Repubblica Ceca si è impegnata per quasi metà dell’ordinativo: il resto dei volontari ha scelto maggiore discrezione.
Alla fine, il risultato dell’iniziativa ha superato le aspettative: Pavel e soci hanno portato a casa un milione di proiettili e il ministro della Difesa estone Hanno Pevkur, intervistato dal quotidiano Postimees, ha inoltre rivelato che sul mercato ne sarebbero disponibili ancora tra gli ottocentomila e un milione e duecentomila. Si tratterebbe di razzi Grad e proiettili da 122 mm, 152 mm e 155 mm. Basta pagare. L’Estonia lo ha comunicato nell’ultima riunione dell’Ukraine Defense Contact Group e chi vivrà vedrà.
Tutto risolto, sembrerebbe. Sbagliato. Se i generali di Zelensky saranno obbligati alla semplice difesa delle posizioni avranno bisogno dai seimilasettecento ai settemila colpi d’artiglieria al giorno, pari a duecentomila al mese. A fine agosto allora la fornitura, per dire, ceca sarebbe già esaurita. «Per riprendere invece una vera e propria capacità offensiva di qualche livello» stima la Rivista Italiana Difesa, «l’Ucraina avrebbe bisogno di ben undicimila ottocento proietti al giorno, pari a circa trecento cinquantaquattromila colpi mensili (o 4,2 milioni annuali), cifre similari a quelle di cui i russi, molto probabilmente, disporranno a breve».
La realtà, solo in parte sottaciuta, è che l’Occidente non è in grado di produrre munizioni a sufficienza e nel breve periodo, per calcoli di pura convenienza da parte dei fabbricanti di armi e soprattutto per pura insipienza politica. «Il ritardo dell’Europa nelle forniture», ha notato Federico Fubini, «sembra avere varie spiegazioni. La più sconcertante è nel fatto che, semplicemente, le imprese europee della difesa continuano a vendere la loro produzione di artiglieria verso Paesi terzi diversi dall’Ucraina».
I numeri sono impietosi. La produzione europea di proiettili, che sfiorava il milione all’anno, dopo l’invasione di Putin è cresciuta di un terzo, e il Commissario europeo per il mercato interno Thierry Breton, ha sostenuto che nel 2024 si arriverà a un totale (che non include solo i 155 mm) di 1,4 milioni di pezzi per arrivare a toccare i due milioni nel 2025. Buona parte (circa il quaranta percento) sarà destinata, però, a rimpinguare le scorte dei Paesi membri. Evidente il gap tra munizioni necessarie e fornite: se le previsioni del manager francese prestato alla politica fossero confermate si tratterebbe di cinquemilacinquecento colpi al giorno. Insufficienti.
Non si può poi dimenticare che l’Unione europea negli ultimi nove mesi ha fornito a Kyjiv poco più della metà del milione di munizioni promesso in pompa magna da Joseph Borrell un anno fa. «Il nocciolo della questione», aveva profetizzato Jack Watling, ricercatore del Royal United Service Institute nel maggio scorso «è che questo era ovvio già nell’aprile del 2022, ma sono rimasti seduti con le mani in mano». Lo stesso Watling, più di recente, ha spiegato su Time l’importanza dei colpi da 155 mm che armano i circa trecentocinquanta obici posti a presidio di un fronte sterminato, battuto dagli assalti di fanteria russi. «Se l’Ucraina avesse abbastanza artiglieria, questi attacchi potrebbero essere facilmente respinti perché pochi colpi di calibro 155 mm ucciderebbero gli attaccanti non appena iniziano ad avanzare».
Si dirà: non c’è solo l’Europa. Vero, ma la Corea del Sud ha già assicurato gran parte dei rifornimenti serviti alla fallita controffensiva ucraina, mentre l’attuale capacità produttiva statunitense di proiettili da 155 millimetri sembrerebbe non superare i trecentomila pezzi all’anno, al netto dello stallo al Congresso sul pacchetto di aiuti.
A fatica, qualcosa si muove. L’Agenzia europea per la difesa (Aed) ha firmato sessanta accordi quadro per l’acquisto congiunto di proiettili. Mentre il 26 marzo è stato annunciato un primo stanziamento di centotrenta milioni di euro a favore della tedesca Rheinmetall, scelta come «principale fornitore di munizioni da 155 mm» a detta del suo stesso Ceo, Armin Papperger.
I fondi saranno destinati a sei progetti nelle filiali in Germania, Ungheria, Romania e Spagna, qui in particolare Rheinmetall ha appena acquisito la Expal Systems S.A.U e questo dovrebbe permettere di estendere le forniture fino ai proiettili per la fanteria meccanizzata Marder o a quelli per i Leopard. La semplice firma del contratto è prevista per maggio, figuratevi la loro messa in atto. «Kyjiv non è a corto di coraggio ma di munizioni», ha detto il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, per poi aprire solo tre giorni dopo in un’intervista dalla Bbc all’ipotesi di permettere «qualche concessione» ai russi.
Sconfortato, Zelensky prova a fare da sé, lamentando anche l’esaurirsi di lanciatori e missili per la difesa tattica. Non sarà facile: Kyjiv produce già le munizioni di standard sovietico, ma la società pubblica Ukroboronprom riuscirà, a quel che trapela, solo nella «seconda metà dell’anno» a portare avanti la produzione di proiettili conformi agli standard Nato.
Il Paese prima dell’invasione russa quasi non produceva più armamenti, oggi l’ottanta percento dell’industria della difesa è in mano ai privati e la produzione è triplicata. Non solo. L’Athlon Avia, per esempio, realizzava cento droni all’anno tra Furia e Silent Thunder, i suoi modelli, oggi sono diventati centocinquanta al mese, ha spiegato al Washington Post il direttore Artem Viunnyk. Di necessità virtù: leggeri, duttili, economici, autarchici droni-kamikaze. Quest’anno ne saranno prodotti oltre un milione, al costo di cinquecento dollari l’uno – come quelli della Will Hornets – anziché di duemilacinquecento per un calibro 155, e pur sempre capaci di danneggiare un T-90. Se basterà contro l’economia di guerra putiniana, con le fabbriche che lavorano a pieno regime non è ancora detto. Davide corre contro Golia e contro il tempo.