Senso unicoIl vincolo sul tesoro culturale privato è un problema per la collettività

Il caso della Ferrari d'epoca che ha subito l’intervento del ministero della Cultura è un esempio di pessima gestione del diritto di proprietà di beni storici e artistici. Così facendo, lo Stato nazionalizza i benefici e privatizza i costi, rendendoli poco appetibili. L’editoriale dell’Istituto Bruno Leoni su Linkiesta

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Il ministero della Cultura ha sottoposto a vincolo una Ferrari 250 Gte del 1962, di proprietà di un notaio bresciano. L’unicità dell’auto sta nel fatto che, su richiesta del maresciallo Armando Spatafora, venne realizzata appositamente per consentire alla Polizia di Roma di dare la caccia ai delinquenti con un mezzo di potenza e velocità adeguate. Sebbene del medesimo modello esistano molti esemplari, questo è l’unico ad avere il lampeggiante e la scritta «Polizia» sulla livrea nera (l’auto gemella finì distrutta durante un incidente).

La vicenda potrebbe apparire una mera curiosità se non fosse che dice molto su quanto valgano i diritti di proprietà nel nostro Paese. Infatti, l’imposizione del vincolo non comporta soltanto l’obbligo per il proprietario di conservare il bene in buono stato e, ovviamente, non modificarlo. Implica anche e soprattutto la sostanziale impossibilità di cederlo a terzi, se non seguendo una complessa trafila burocratica e assoggettandosi a valutazioni di fatto discrezionali delle burocrazie ministeriali.

L’attuale proprietario, che ha acquistato il veicolo per seicentomila euro, non sembra avere particolare urgenza, anche se – da fonti di stampa – pare che egli sia comunque intenzionato a trovare un acquirente. Il fatto che si tratti di beni così costosi (e di proprietari che non hanno problemi economici) tende a far ridimensionare l’accaduto e a far perdere di vista ciò che anche questa vicenda può insegnare.

Ovvero che questo approccio alla tutela dei beni storici e artistici rischia di produrre incentivi perversi: l’intervento del ministero è legato alla visibilità dell’auto, che il proprietario ha esposto più volte (anche prestandola al museo della Polizia). Poiché, rendendo un bene fruibile a terzi, si corre questo rischio, è evidente che chiunque si trovi in una situazione analoga ha tutto l’interesse a tenerlo per sé. A subire il danno maggiore, pertanto, sarebbe la collettività.

Inoltre, non è detto che una persona abbia i mezzi (o la voglia) di manutenere un bene che poi, all’occorrenza, non può vendere e del quale difficilmente potrà incassare il valore di mercato. Il paradosso quindi è che questa politica, nel nome della tutela dei beni storici e artistici, li rende meno appetibili e quindi fa sì che essi siano tenuti nascosti oppure scarsamente curati.

Nel Paese che troppo spesso ha accettato – nel nome del collateralismo tra politica e affari – di statalizzare le perdite e privatizzare i profitti delle aziende «strategiche», è bizzarro che proprio nel caso dei beni culturali avvenga il contrario: si nazionalizzano i benefici privatizzando i costi. Con buona pace della retorica sulla cultura che dà da mangiare.

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