L’ascesa degli influencer ha iniettato miliardi di dollari di marketing e pubblicità nell’economia dei social media e ha innescato una catena di eventi, di vasta portata e articolati, che ha cambiato radicalmente la produzione e la fruizione della cultura. Gli effetti di questa ascesa hanno influenzato il modo in cui i beni, i servizi, le informazioni e le esperienze sono immaginati, prodotti, commercializzati e consumati.
Quando parlo con le persone della mia ricerca, spesso mi viene chiesto: «Perché questo blogger può partecipare al mio notiziario preferito ed esporre la propria opinione? Perché da Target questa linea di articoli per la casa ha il nome e il volto di questo influencer? Perché il mio feed di Instagram sembra un assalto continuo di annunci pubblicitari da parte di persone che pensavo mi piacessero?». Credo che quello che la gente si chiede veramente sia: «Perché gli influencer spuntano in tutte le nostre principali fonti di informazione, di intrattenimento e di beni di consumo? Da dove sono saltati fuori? Che cosa ci fa presagire questo fenomeno?».
Possiamo trovare molte delle risposte a queste domande tramite la comprensione dei processi e delle pressioni dell’industria che sostiene gli influencer e del modo in cui le persone che ne fanno parte si rapportano e rispondono al mondo in continua evoluzione che le circonda. Il fenomeno degli influencer non è nato dal nulla e non era inevitabile. È il risultato di specifiche decisioni, prese da determinate persone in determinate circostanze economiche, culturali, industriali e tecnologiche.
È anche il prodotto di una lunga serie di riflessioni, condotte a livello popolare e accademico, su chi possa influenzare e su come possa farlo, sulle caratteristiche della persuasione e sulle potenzialità della tecnologia. Come accade con le persone, le priorità, le estetiche e le modalità di lavoro del settore degli influencer sono spesso in evoluzione, ma il suo nucleo rimane essenzialmente invariato.
In effetti, ciò che permette a questa industria di continuare a trasformarsi e ad avere successo, nonostante il continuo stato di caos che la anima, e che anima del resto tutto il mondo, è la sua capacità di occultare il disordine. Fa propri ideali e processi basilari – e dai contorni fondamentalmente sfuggenti – come l’autenticità e l’influenza e li confeziona con cura come beni di consumo che possono essere misurati e venduti come qualsiasi altro prodotto. Adotta l’incertezza e la fa apparire gestibile.
La principale attività dell’industria degli influencer è la continua riconsiderazione, ridefinizione e rivalutazione dell’autenticità. L’autenticità è la qualità che rende una persona più influente di un’altra, anche in presenza di metriche simili. La sensazione di autenticità fa vendere i prodotti. Le storie basate sull’autenticità e condivise dagli influencer di successo vendono ai loro follower il sogno dell’imprenditoria digitale e il mito che la tecnologia sia intrinsecamente democratica o, perlomeno, meritocratica.
La costruzione accurata dell’autenticità è ciò che ha permesso ad alcuni operatori di ottenere guadagni consistenti e di trarre piena soddisfazione dal proprio lavoro di creatori di contenuti per i social media. Ma è anche ciò che ha consentito ad altri di diventare degli idoli, di diffondere disinformazione, di propagare ideali di vita insinceri, o peggio.
Tratto da “L’industria degli influencer” (Piccola Biblioteca Einaudi), di Emily Hund, pp. 238, 22€