Attrice, danzatrice, performer. Quante e quali di queste cose è Alessandra Cristiani? Tutte e contemporaneamente nessuna. Essendo lei più che altro un’artista, un’artista vera e propria, che utilizza materiale concreto, pratico, per così dire immanente per rivolgersi al di là della realtà, al di là delle cose di qui, protesa verso una ricerca esistenziale, multiforme, crepitante. E trascendente. Curiosa associazione per lei, che ha sempre definito il suo lavoro un interrogativo persistente sul corpo, sul corpo in quanto fenomeno in sé. Può il corpo diventare uno strumento di qualcosa di metafisico? In fondo, abitiamo un’epoca che lo tratta e lo intende in modo strano: lo esalta e contemporaneamente lo dimentica, celebra la sua immagine, la sua funzione sociale, i suoi contenuti simbolici e consumistici, le alterazioni e le allitterazioni dovute alle marche dei suoi abiti, la sua igiene, la sua pulizia, la sua forma fisica, in un continuo rimando di prestazioni individuali. E poi però cessa di valorizzare la sua natura, la sua fisiologia, la sua origine. Che risponde a impulsi arcaici, primitivi, inconsapevoli, istintivi.
Ecco, l’opera di Alessandra Cristiani è soprattutto un tentativo di ricostituire e di comunicare l’armonia, la grazia e il cosmo organico del corpo. Sebbene il termine “comunicare” oggi non renda l’idea giacché prevede ormai un destinatario, un ricevente che non è più reale, ma è diventato virtuale, di massa. Comincia dal teatro senza tuttavia mai abbandonarlo interamente, studiando cioè recitazione, un particolare forma di recitazione, nutrita dai principi del Teatro di Strada, del Terzo Teatro, del Teatro di Ricerca. Nel 1997 riceve il Premio Excelsior come migliore attrice per il cortometraggio La foto, per la regia di Sara Masi. Poi si avvicina alla danza contemporanea, con Moses Pendleton, Giovanna Summo, Domenique Dupuy, Hervè Diasnas.
Al tempo stesso indaga lo yoga, il Qi gong. Si concentra sul respiro. Sul movimento, più di ogni altra cosa. È a partire dagli anni Novanta che scopre la danza Butō, una serie di tecniche di danza contemporanea ispirate al movimento Ankoku-butō, che letteralmente significa “danza tenebrosa”, attivo in Giappone negli anni Cinquanta. Di solito, i suoi aspetti più ricorrenti sono le parti del corpo scoperte, un velo di polvere o di cipria bianca distese sul corpo del ballerino, a volte solo sulla superficie del suo viso, di modo che le smorfie e le espressioni grottesche ispirate al teatro classico risaltino sotto le luci del palcoscenico e l’alternarsi di movimenti estremamente lenti insieme a convulsioni frenetiche.
È così che Alessandra Cristiani va in scena, ancora oggi: i lineamenti del volto sgranati da uno strato di biacca bianca, nuda o quasi, attraversata da fremiti, percezioni dapprima vaghe e distratte e poi sempre più intense, scatti in avanti, contorsioni improvvise. Come se desse libero sfogo a pulsioni che normalmente siamo abituati a tenere sepolte dentro di noi, sotto lo strato apparente della coscienza, della razionalizzazione dei comportamenti umani. O quantomeno come se cercasse di trasformare il suo corpo in una geografia di linguaggi, in una cartina di tornasole di nervi, tensioni, desideri, impulsi, tremiti. Dimostrando quanto ancora oggi il corpo umano è un ricettore di sensi che vengono puntualmente deviati, allontanati dalle correnti cerebrali atte a una perenne razionalizzazione. Come sostiene Yari Jordan Montemagno, curatore di performance milanese: «La pratica di Alessandra Cristiani ha anche un altro elemento a mio avviso commovente, che riguarda la preparazione alla performance, fatta soprattutto di intense respirazioni. Come se, per essere attraversato dal movimento, per sfiorare stati di grazia, il corpo dovesse essere prima di tutto un corpo ben respirato. Questa e altre pratiche permettono a un performer di livello di sostare, seppur per brevi momenti, nei pressi del mistero».
O ancora, tentando di mostrare le idiosincrasie, le coazioni a ripetere, i tic, i gesti quotidiani che ci caratterizzano nostro malgrado, a nostra insaputa, di cui forse non siamo nemmeno coscienti. Riportarli alla luce, vederli per la prima, vera volta non è diverso dal processo di ascolto che si imbastisce durante le fasi di meditazione: prestare attenzione ai rumori di sottofondo di cui le nostre giornate sono costipate, che noi stessi abbiamo integrato a tal punto da non sentirli nemmeno più. Concentrandosi, si scopre che ciascuna cosa parla, emette un rumore, un verso, un fischio. Un rombo distratto. E il corpo, per giunta, è travolto, punzecchiato, stimolato, battuto a tempo da pensieri fugaci, ricordi, sensazioni, risponde del complesso funzionamento della psiche.
Nel 2015 è in Giappone come prima artista ospite al Tenshikan, centro di danza del maestro Akira Kasai. Ha vinto il Premio Ubu 2018 come miglior spettacolo di danza con Euforia. Da allora collabora all’organizzazione delle giornate sul Butō nel festival Testimonianze ricerca azioni della compagnia Teatro Akropolis. Ha collaborato con Matteo Castellucci e Silvia Rampelli in merito a un progetto sulle strutture elementari dell’azione. È stata citata all’interno della recente mostra dal titolo Rodin e la danza in svolgimento al MUDEC di Milano durante la stagione del 2024. E in effetti, a vederla, ricorda non solo una delle sculture di Rodin, da cui peraltro trae ispirazione, ma anche una delle marionette del sublime racconto di Heinrich Von Kleist: dove, sostiene l’autore, esse danzano meglio di qualunque altro essere umano perché tirate verso l’alto da fili invisibili che non consentono mai loro di toccare terra, una specie di motore divino, la grazia, che le rende prive di gravità.