La vera sfida è parlare della guerra in Israele e Gaza senza usare un «ma…». Certo, il 7 ottobre i militanti di Hamas hanno violentato, saccheggiato, rapito e ucciso – ma cosa ti aspettavi… Sì, la risposta del governo Netanyahu è stata brutale e implacabile – ma sconfiggere Hamas… La verità è questa: la storia può essere un pantano crudele e in questo caso specifico non offre soluzioni, solo dolore. Se mai ci sarà pace tra israeliani e palestinesi, ci sarà guardando avanti, non indietro. La pace può passare solo da un’operazione di astrazione totale, di tutto, di sicuro non può essere costruita su un passato traboccante di morte, sofferenza e storie di rivalità impossibili da conciliare.
E così eccoci qui, ancora una volta, a ricordare il passato e condannati a ripeterlo. Politici, esperti, studiosi e attivisti sono totalmente consapevoli dell’infernale voragine che queste storie rivali hanno creato, eppure i potenti tra loro macchinano per una soluzione a due Stati che istituzionalizzerebbe gli ostacoli alla pace della situazione attuale e li renderebbe permanenti. Che una soluzione a due Stati, intesa come fine a se stessa, equivalga a qualcosa di diverso da un fugace antidoto alle rivendicazioni odierne non è altro che una finzione crudele e menzognera. La soluzione dei due Stati è un’idea falsa e palesemente impraticabile che non ha quasi alcuna legittimità a livello locale e serve, nella migliore delle ipotesi, a governi di altri Paesi che cercano di soddisfare i propri elettori che vivono lontano da quel territorio aspramente conteso che si estende «dal fiume al mare».
Una soluzione a due Stati cristallizzerebbe l’insicurezza esistenziale israeliana, e il confinamento palestinese in due pezzi di terra disfunzionali – che per loro natura sono un promemoria quotidiano di ingiustizie impossibili da ignorare – è destinato a radicarsi nelle menti di coloro che vivono al loro interno come prova di uno status inferiore. L’oppressione irrisolta li trasformerà in niente più che trampolini di lancio verso il sogno mai realizzato di un territorio più vasto finalmente recuperato.
La soluzione dei due Stati, che è sempre stata nebulosa e sconcertante nei suoi dettagli – un tunnel (uno che gli israeliani in realtà tollererebbero) che collega la Cisgiordania e Gaza; una forza araba di mantenimento della pace; Hamas, e non la forza che sta dietro ad esso, ostacolata, lascerà comunque gli israeliani con un’autorità impraticabile che molti non vogliono, e i palestinesi continueranno a volere ciò che non hanno, ovvero la libertà senza restrizioni. È un piano che aleggia inutilmente sull’orizzonte da più tempo di quanto Israele stesso esista. Prova di un fallimento, sicuramente.
E si noti una cosa. L’Onu aveva previsto la soluzione a due Stati quando le potenze occidentali avevano un peso nelle sue decisioni e non c’era una sola televisione in tutto il Medio Oriente. Ma immaginare che sia plausibile oggi, con una gran quantità di Stati tirannici e pseudo-democrazie che requisiscono le Nazioni Unite, e con immagini esasperanti di vite apparentemente migliori di altre persone che vengono costantemente, irrevocabilmente, pubblicate e trasmesse in streaming sui dispositivi nelle nostre mani, è un’altra cosa. Non vediamo che questi fenomeni hanno alimentato incendi ovunque?
Una soluzione a due Stati è un compromesso per punti di vista inconciliabili. Si tratta di un rinvio, non di una risoluzione, del conflitto in Medio Oriente, e alla fine porterà solo a ulteriori ritorsioni, a ulteriori morti.
La verità incredibilmente difficile, la realtà molto più complicata da affrontare, è che solo la soluzione a un solo Stato può durare a lungo. Solo in uno Stato, a duplice possesso, israeliani e palestinesi – ebrei, cristiani e musulmani -, conoscerà la pace e la prosperità.
Come, già vi sento dire, si può condannare la fatale illogicità di una soluzione a due Stati e poi suggerire – o sognare, più probabilmente – un unico Stato, un’unica democrazia, in cui gli arabi costituirebbero immediatamente la metà della popolazione votante? Non costituisce una minaccia terribile e letale per gli ebrei israeliani?
Ebbene, risponderei, certamente non immagino che la soluzione con un unico Stato funzioni da subito. Credo che non funzionerà per molto tempo, ma non lascerò nemmeno che l’attuale situazione oscuri questa opzione. Una soluzione a uno Stato potrebbe richiedere diversi decenni per funzionare, tempo necessario questa volta per sviluppare il contesto giusto, il tempo necessario affinché palestinesi e israeliani possano conoscersi e non temere l’altro. È tempo che palestinesi e israeliani pongano fine all’arma della fede e sostituiscano la futilità con la fiducia. Non è meglio ed effettivamente più vero lavorare per un fine giusto che sia anche sostenibile, verso una versione della società in cui le inimicizie vengono sradicate e non semplicemente represse? Una in cui c’è perdono, collaborazione e perfino amicizia?
Questo non è un sogno irrealizzabile. È un progetto. Se tedeschi ed ebrei posso ora vivere insieme, con le loro storie in sospeso; se gli americani, neri e bianchi, precedentemente schiavi e proprietari di schiavi, convivono; se nel mio Paese, il Canada, le popolazioni indigene e quelle arrivate più recentemente stanno, per un reciproco vantaggio, lavorando in modo cooperativo verso un futuro più equo; se croati e serbi, hutu e tutsi, possono astenersi dall’uccidersi a vicenda (come anche ucraini e russi se Vladimir Putin e i suoi accoliti si togliessero di mezzo), allora perché non possono farlo israeliani e palestinesi, arabi ed ebrei? E non ci sono già in Israele gli inizi di questo fenomeno, di questa urgenza? Il Canada ha qualcosa di reale da offrire qui, esperienze storiche legittime con molta più sostanza della forza militare di cui parliamo ma che non abbiamo.
Se non altro perché non abbiamo tutto questo hard power. Il Canada si basa su un soft power fatto di conoscenze e esperienze vissute. L’establishment governativo qui – pensatelo come “colono” o “bianco”, se può aiutare – ha ceduto attivamente la propria autorità e trovato modi per condividere il potere per il bene comune sin dalla nascita di questo Paese, prima a favore dei canadesi francofoni, e poi per i popoli indigeni. Abbiamo imparato, e stiamo ancora imparando, come rendere l’intero Paese, e non un’aula scolastica o una sala riunioni, uno “spazio sicuro”, e come applicare bene questi insegnamenti.
Il requisito legale della consultazione degli indigeni in un numero crescente di ambiti. Lo sforzo, non ancora del tutto realizzato, di rendere i servizi sanitari e l’istruzione disponibili a tutti, ovunque e in più di una lingua. La “notwithstanding clause” della Carta canadese dei diritti e delle libertà (un documento che è un modello per il resto del mondo perché si occupa di astratti vitali e inalienabili piuttosto che, per esempio, degli arcani e assoluti storici della Costituzione americana ora così spesso catalizzatori di disordini), che consente alle province del Paese di esentarsi da una decisione federale in circostanze eccezionali (meccanismo tanto abusato quanto necessario). La cessione alle comunità indigene di diritti alla terra e alle risorse che altrove sono la prima causa di guerre e invasioni. La resurrezione dei diritti derivanti dai trattati sarebbe così facile per la maggioranza semplicemente ignorarla – anche l’incoraggiamento e il coltivare le lamentele di gruppi disparati che è, ironicamente e praticamente, la conditio sine qua non del loro annullamento.
Queste sono solo alcune delle misure che il Canada ha adottato per garantire che le visioni del mondo e usi e costumi delle minoranze abbiano un peso sproporzionato ma adeguato in una democrazia che, in una forma più elementare, avrebbe altrimenti potuto indebolirle.
Il Canada ha dato alla parola stessa “nazione” un significato maggiore e più sfumato di quello di cui gode nel resto del mondo. La Gran Bretagna non lo ha fatto. L’America non lo ha fatto. Francia, Germania, India, Cina, Russia, Brasile non lo hanno fatto. Anche l’Australia si è rifiutata di farlo. Ma il Canada ci è riuscito.
Forse, affrontare la sfida di una nazione apparentemente impossibile anche solo da contemplare, aiuta ad andare avanti nel futuro e tornare indietro. Immaginiamo, per quanto difficile, una “Commissione per la Verità e la Riconciliazione” che viaggi da Rafah e Khan Younis a Gerusalemme e alle alture di Golan, che senta la madre israeliana la cui figlia è stata violentata e sputata, il suo corpo vilmente spezzato e mancato di rispetto su un camioncino, e poi anche la bambina palestinese che, dopo aver perso un arto, ha visto la sua famiglia schiacciata sotto il cemento bombardato di quella era stata la loro casa. Dare la possibilità a ognuno di esprimere le sue strazianti lamentele e diventa l’occasione per chiudere e andare avanti perché il passato viene rifiutato, non distrutto, e il futuro è ciò a cui il Paese si rivolge.
Un Paese in cui – per quanto la pratica possa sembrare banale ai canadesi che l’hanno iniziata (potremmo anche proclamarlo, non ci verrà mai riconosciuto) – l’esecuzione di una lettura di Etgar Keret, o di un concerto del Al-Aqsa String Quartet, è preceduto da un riconoscimento del territorio tradizionalmente abitato da musulmani ed ebrei sin dal… beh, da tempo immemore. Un Paese in cui centinaia di miliardi di dollari vengono spesi in agricoltura, scienza e istruzione, non in armamenti, il cui dispiegamento è ormai ridondante.
Quindi proviamo a immaginare come questo nuovo Paese precedentemente noto come Israele e Palestina sia arrivato a questo punto. Consideriamo gli ostacoli apparentemente insormontabili che ha superato, le garanzie, le difese e i protocolli di questa società migliore, la compensazione monetaria con cui ha risolto quello che in precedenza era stato un “diritto al ritorno” implacabilmente immaginato; il sostegno che questo nuovo Paese ha ottenuto su vasta scala da altri Paesi.
Ma proviamo a immaginare anche la pace: un solo Stato è l’unica soluzione. Nemmeno per sogno posso dire che sarà facile. Al di là del trovare sazietà in qualcosa di diverso dalla violenza che il processo richiederà inizialmente, non posso nemmeno fingere di sapere quali saranno i passaggi. Ma…
L’articolo è stato originariamente pubblicato sulla testata canadese Globe and Mail.