Nel mondo globalizzato, la tendenza del piano «nazionale» a fondersi con quello «internazionale» è sempre più forte. Come sanno bene gli studiosi di politica comparata, guardare alle vicende politiche dei singoli stati come se fossero indipendenti dal sistema al quale appartengono sta diventando sempre più arduo. Lo stesso vale per la comprensione e l’analisi delle relazioni internazionali – una sfera che ha ormai perduto la natura di spazio «separato», controllato unicamente dalle diplomazie e dalle logiche geopolitiche e strategico-militari, che sembrava avere ancora fino ad alcuni decenni fa.
In nessun’altra parte del mondo, il legame tra le dimensioni «interna» ed «esterna» appare però così stretto e così evidente come nella politica dell’Africa australe. Come mostra la sorte singolare della parola «apartheid» (nata per descrivere un regime legato a doppio filo alla storia del Sudafrica e usata ora come categoria universale applicabile in aree molto distanti dal suo contesto originario come la Palestina e l’Iran), la storia politica di questa regione si è sviluppata parallelamente alla formazione della comunità internazionale, intrecciandosi fin dall’inizio con le trasformazioni dei principi posti alla base delle grandi organizzazioni internazionali. Rileggere la traiettoria politica degli stati dell’Africa australe dalla prospettiva del sistema mondiale (e viceversa) non è dunque utile soltanto per comprendere meglio il ruolo delle relazioni internazionali nelle loro vicende interne, ma anche per gettare luce sull’evoluzione di questo stesso sistema.
Per quanto legati allo scramble for Africa e all’espansione degli imperi coloniali europei, i processi di state formation che si attivano nella regione tra la seconda metà dell’Ottocento e il Novecento si sviluppano in concomitanza con quel nuovo tessuto di regole mirate a disciplinare le relazioni internazionali, basate sui principi della parità formale e del reciproco rispetto tra gli stati, che dopo la fine della Seconda guerra mondiale porterà all’istituzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu).
Il processo che conduce alla nascita del primo degli stati della regione, l’Unione del Sudafrica (1910), riflette già l’influenza di queste dinamiche. Da un lato, la creazione di un «dominion», un’entità politico-territoriale dotata di un forte grado di autonomia dalla metropoli imperiale, che vede come protagonisti alcuni dei leader militari delle repubbliche boere sconfitte pochi anni prima dall’Impero britannico, appare come una specie di risarcimento per un’aggressione destinata a diventare, agli occhi di contemporanei e storici, la «guerra imperialista» per eccellenza [Hobson 1996]. Dall’altro lato, la nascita del nuovo stato sudafricano si inserisce all’interno della trasformazione complessiva dell’Impero britannico in un’organizzazione «federale», che farà da apripista e da laboratorio, anche sul piano giuridico, per la costruzione di altre organizzazioni internazionali [May 2010]. Il lungo processo che porterà alla nascita del «Commonwealth delle Nazioni» come comunità di stati tenuta insieme non solo dalla lealtà alla Corona britannica, ma anche dalla condivisione di una serie di principi, istituzioni e pratiche di governo, rappresenta uno degli antecedenti diretti della fondazione nel 1920 della Società delle Nazioni e, dopo la Seconda guerra mondiale, delle Nazioni Unite.
Nel periodo tra le due guerre mondiali, i processi che preparano e accompagnano la formazione degli stati dell’Africa australe continuano a svilupparsi all’interno di una cornice in cui l’idea di una «comunità internazionale» comincia ad assumere una forma istituzionalizzata. La partecipazione del premier sudafricano Jan Smuts, ex generale boero divenuto simbolo della riconciliazione tra afrikaner e inglesi, al gabinetto imperiale creato a Londra durante la Prima guerra mondiale, anticipa infatti la presenza del Sudafrica, insieme a Canada, Australia e Nuova Zelanda, alla conferenza di pace che conclude il conflitto, su un piede di parità con la Gran Bretagna e con le altre potenze europee. Pochi anni dopo, con lo statuto di Westminster del 1931, il Sudafrica, sempre insieme a Canada, Nuova Zelanda e Australia, si vedrà riconoscere la piena sovranità legislativa in materia di politica estera e, con essa, la conferma del rango di membro a pieno diritto della comunità degli stati.
Ciò che rende «speciale» il Sudafrica – e diventerà un tratto caratterizzante anche di tutti gli altri stati della regione australe – è il legame tra la presenza entro i suoi confini di una popolazione maggioritaria esclusa dai diritti politici, e la questione della definizione di quali siano le «nazioni» depositarie di quel «diritto all’autodeterminazione», enunciato dal presidente americano Thomas Woodrow Wilson alla Conferenza di pace di Versailles nel 1919.
Nei primi decenni del Novecento, la soluzione a questo problema si riallaccia alla giustificazione livingstoniana-umanitaria del colonialismo emersa dalla metà dell’Ottocento: il diritto all’autodeterminazione riguarda tutti i gruppi umani, ma può essere esercitato solo da quelli che hanno già raggiunto un certo grado di «civilizzazione» – che sono considerati «in grado di reggersi da soli nelle condizioni difficili del mondo moderno» – secondo la formulazione dell’art. 22 dello statuto della Società delle Nazioni.
Fondata sulle teorie antropologiche evoluzionistiche ancora dominanti tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento [Stocking 1995], questa visione poggia sull’idea che esista una distinzione tra popoli «maturi» per esercitare il diritto ad autogovernarsi all’interno dei propri confini e per partecipare alla nascente comunità internazionale, da una parte, e comunità «non ancora mature» per accedere a questo status, dall’altra. La visione è completata dall’idea della trusteeship: la responsabilità di tutela dei popoli arretrati (il «fardello dell’uomo bianco») che graverebbe sulle spalle dei popoli civilizzati e che giustificherebbe, entro certi limiti e sotto certe condizioni, il dominio coloniale [Allsobrook e Boisen 2016].
Nella Società delle Nazioni, l’idea di trusteeship è posta alla base della politica dei «mandati fiduciari»: i territori e le comunità sottoposti fino al 1918 al dominio degli Imperi turco e tedesco considerati non ancora pronti per esercitare il proprio diritto collettivo all’auto-governo sono affidati all’amministrazione «temporanea» di una delle potenze vincitrici della Prima guerra mondiale, da esercitare nell’interesse delle popolazioni native sotto la vigilanza della Società delle Nazioni. È quanto sta avvenendo anche all’interno dell’Unione sudafricana, dove i bianchi si assumono la tutela della popolazione nera. Non è un caso quindi che il governo sudafricano sia uno dei primi beneficiari di questa politica, vedendosi riconosciuto il mandato sull’Africa del Sud-Ovest (la futura Namibia), possedimento coloniale della Germania occupato militarmente nel 1914. In questa cornice normativa, per quanto la costituzione dell’Unione sudafricana escluda la popolazione «non bianca» dai diritti di cittadinanza politica – o meglio, proprio per questo – il paese può essere considerato, come le altre settler societies a maggioranza europea assurte allo stato di dominion, una nazione «civilizzata» e capace di auto-governo responsabile.
La distinzione tra popoli «civilizzati» e «non civilizzati» è contestata dalle élite nazionaliste in formazione nei possedimenti europei in Asia e in Africa, che approfittano della nascita delle organizzazioni internazionali per sostenere le proprie istanze. Non è un caso che una delle prime a mobilitarsi attivamente sia la nuova élite nazionalista indiana che, di fronte al ritardo con cui procede la concessione dello status di dominion anche ai territori asiatici considerati più «pronti» (l’India stessa e Ceylon) e all’adozione di leggi contro l’immigrazione indiana all’interno dell’Impero britannico, comincia a spingere per una rilettura più radicale del principio di autodeterminazione nazionale. L’attacco di Gandhi all’idea della trusteeship, che rappresenta uno dei pilastri della protesta contro le limitazioni all’immigrazione indiana in Sudafrica del 1908 [Lake e Reynolds 2008] è l’inizio di un percorso che già dagli anni Trenta porterà il leader indiano a guidare la campagna per la concessione dell’autodeterminazione e del suffragio universale come un diritto che dovrebbe essere riconosciuto immediatamente a tutti i popoli sottoposti a dominio coloniale o mandato fiduciario, senza condizioni o percorsi di preparazione.
La pressione crescente da parte delle élite coloniali, che riflette il graduale spostamento degli equilibri demografici e la crescente mobilitazione delle masse «non bianche» a livello globale, ottiene i primi frutti nei decenni che precedono lo scoppio della Seconda guerra mondiale. La Gran Bretagna, preoccupata di non compromettere i rapporti con i nazionalisti africani, tra il 1923 e il 1931 adotta una nuova politica che dichiara la «preminenza» degli interessi delle popolazioni indigene su quelle dei bianchi in tutte le colonie in cui esse costituiscono la maggioranza. Pur non concedendo lo status di dominion a nessuna colonia «nera», lo nega anche alle comunità di settlers in territori a maggioranza africana come Kenya, Uganda e (con qualche oscillazione) Rhodesia. In questo nuovo quadro, l’estensione all’Africa del Sud-Ovest delle leggi di segregazione applicate in Sudafrica offre alle élite nere dei territori britannici la possibilità di accusare Pretoria di non tutelare gli interessi delle popolazioni indigene (e di violare i principi alla base dell’amministrazione fiduciaria), ottenendo così che la Gran Bretagna blocchi l’annessione all’Unione di Botswana, Lesotho e Swaziland.
Fino alla Seconda guerra mondiale, tuttavia, la trasformazione in corso non impedisce che il Sudafrica continui a essere tra i promotori dei processi che portano all’istituzionalizzazione della «comunità internazionale». Nuovamente alleato di Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti contro le potenze dell’Asse, durante il conflitto Smuts (tornato al potere nel 1939) partecipa insieme a Roosevelt, Churchill e ai primi ministri di Canada e Australia a tutti i vertici in cui inizia a delinearsi la «comunità atlantica», svolgendo un ruolo di primo piano nel processo che nel 1945 darà origine all’Organizzazione delle Nazioni Unite.