Passeggiare per via Ledra è un’esperienza unica nell’Europa del ventunesimo secolo. Attraversando il varco aperto nelle mura medievali si passa dal lato greco a quello turco della strada, della città e dell’intero Paese. In mezzo la green line, la zona cuscinetto amministrata dall’Onu per evitare che le due anime dell’isola vengano a contatto. Nicosia è infatti l’unica capitale “divisa” nel Vecchio Continente, retaggio di una storia millenaria che pone Cipro al centro di scontri identitari ancora irrisolti. Oggi, proprio all’interno di questa buffer zone, le tensioni si attualizzano in una crisi migratoria senza eguali, con la green line che per i migranti provenienti dalla sponda turca dell’isola si trasforma in una sorta di limbo affacciato sull’Europa.
La linea verde divide infatti l’isola in due: l’area settentrionale è territorio dell’autodichiarata Repubblica Turca di Cipro del Nord, riconosciuta a livello internazionale solo da Ankara, mentre a sud c’è la Repubblica di Cipro, dove si parla greco e dove dal 2004 sventola la bandiera dell’Unione europea. Qui vigono le norme comunitarie in materia di asilo e migrazione ma, guardando alle statistiche più recenti, nel 2022 è stata proprio Cipro a stabilire l’imbattuto record per la percentuale più alta di richieste d’asilo rifiutate (93,7 per cento). Un anno dopo il tasso si era stabilizzato al settantuno per cento, un calo comunque insufficiente a scalzare l’isola dal gradino più basso del podio europeo: nel resto dell’Unione, infatti, viene accettata in media più di una richiesta d’asilo ogni due (52,8 per cento).
A inizio giugno il presidente Nikos Christodoulides ha dichiarato che il governo «non aprirà un’altra rotta migratoria», e che la green line «non diventerà una nuova via di passaggio per i migranti illegali». Neanche un mese dopo i media ciprioti testimoniavano la presenza di trentasette persone intrappolate nella striscia di terra amministrata dall’Onu, non distanti da Nicosia. Intrappolate, sì, perché le tende fornite dall’Unità di pacekeeping e dall’Unhcr in condizioni appena sufficienti, senza un’adeguata fornitura alimentare o sanitaria, non possono considerarsi una valida alternativa al sistema di accoglienza nazionale. Numeri e dichiarazioni ufficiali, tuttavia, sembrano mostrare chiaramente quale sia l’approccio di Cipro nei confronti del fenomeno migratorio: puntare il dito contro la Turchia per gli arrivi irregolari e attuare politiche talmente dure da rendere i rimpatri volontari il male minore.
L’emergenza di migranti e richiedenti asilo non è però l’unica ad alimentare tensioni lungo la green line. Tracciata per la prima volta nel 1964 per separare i quartieri greci e turchi di Nicosia, l’area demilitarizzata istituita dalle Nazioni Unite dieci anni più tardi si estende per centottanta chilometri tagliando in due l’intera isola. Dal 2003 sono stati aperti sette varchi lungo la linea verde, di cui quello in via Ledra è il primo e più importante vista la sua collocazione nel cuore della capitale, che fa dell’incontro fra la cultura greca e quella turca la sua cifra distintiva.
Abitata fin dall’epoca micenea, l’isola più orientale del Mediterraneo è passata dalla dominazione egiziana, romana e bizantina a quella veneziana e ottomana. Quest’ultima, in particolare, ha segnato profondamente la storia cipriota introducendo la minoranza turca che tutt’oggi occupa l’area nord. Nei giorni scorsi la rigida spartizione territoriale tutt’ora in vigore ha compiuto cinquant’anni, ma la questione cipriota risale almeno a un paio di decenni prima, quando l’isola era una colonia britannica. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, infatti, tensioni opposte fra il nazionalismo greco e il sentimento turco diedero vita a due correnti antagoniste. A Sud l’obiettivo era l’enosis, ovvero la riunificazione con la madrepatria Grecia. A Nord invece prevaleva la taksim, l’ambizione a proseguire con la spartizione territoriale che avrebbe garantito alla comunità turca di rimanere la più grande minoranza di una piccola colonia di Londra piuttosto che finire nel grande calderone ellenico.
La soluzione temporanea fu l’indipendenza di Cipro, con un presidente greco, l’arcivescovo Makarios III, e un vicepresidente turco, Fasil Kuçuk. A garanzia dell’ordine costituzionale furono chiamati i tre attori coinvolti nei delicati equilibri dell’isola, ovvero Turchia, Gran Bretagna e Grecia, ma il tentativo si rivelò fallimentare e Cipro rimase unita soltanto dal 1960 al 1963. Seguirono anni di forti tensioni internazionali che interessarono anche gli Stati Uniti, preoccupati che la nascita di una “Cuba mediterranea” potesse stravolgere lo status quo in Europa, fino al golpe militare favorevole all’annessione alla Grecia.
Il 15 luglio 1974 Cipro visse l’instaurazione di un governo nazionalista pro enosis a Sud a cui pochi giorni dopo, il 20 luglio, l’esercito di Ankara rispose invadendo i territori del Nord. Il risultato fu l’esodo incrociato di circa duecentomila greco-ciprioti e cinquantamila turco-ciprioti, costretti ad abbandonare le loro case e fuggire da un territorio che da allora li vede reciprocamente come stranieri. Quest’anno, in occasione del cinquantenario, l’ex perla turistica di Varosha ridotta a città fantasma dopo i fatti del Settantaquattro ha ospitato una parata militare alla presenza sia del presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, sia del leader dell’opposizione, Özgür Özel. Mentre a Nord si festeggiava sostenendo una soluzione a due Stati, a Sud il ricordo di quei giorni traduce nel doloroso anniversario delle vittime, con il primo ministro di Atene, Kyriakos Mitsotakis, e tutta la comunità greco-cipriota favorevoli a una riunificazione dell’isola.
Questione cipriota e gestione dell’emergenza migratoria. Due fenomeni ricchi di similitudini, a cominciare dalla loro stretta correlazione con la green line fino ad arrivare, in maniera decisamente più cruciale, all’assenza di approcci risolutivi per cui i tempi, proprio come cinquant’anni fa, sembrano non essere ancora maturi.