Due decenni fa co-housing, giardini di comunità, orti condivisi, gruppi di acquisto, gruppi di mutuo aiuto, nuovi centri sociali e culturali erano ancora allo stadio di primi prototipi molto legati alle peculiarità dei contesti in cui erano nati e alle persone che avevano saputo pensarli e realizzarli. Però già allora erano in grado di dimostrare che le idee di servizio su cui si basavano erano fattibili: qualcuno, da qualche parte, era riuscito a metterle in pratica. A partire da lì, ciascuna di queste idee ha avuto una sua storia. Qualcuna si è esaurita presto. Qualcuna è rimasta bloccata allo stadio iniziale. Qualcuna è stata in grado di durare nel tempo e talvolta di ispirare altri gruppi di persone in altri luoghi a fare qualcosa di simile. Qualcuna è evoluta seguendo una sua traiettoria (la traiettoria dell’innovazione, appunto).
Considerando l’ultima di queste possibilità, che è quella che qui ci interessa discutere, si vede quanto le traiettorie e i risultati possano essere diversi e come nei loro percorsi possano mantenere i valori da cui erano partiti, lasciarli cadere, oppure anche andare in direzione decisamente opposta. Facciamo un esempio: l’idea del car pooling è stata all’origine la risposta alla domanda di usare meglio i posti disponibili in un’automobile. L’obiettivo era multiplo: condividere i costi del viaggio, ridurre il numero di vetture in circolazione e socializzare tra persone che fanno uno stesso percorso. L’idea era buona, ha avuto successo e ha portato a diverse forme di car pooling evoluto. Alcune hanno cercato di mantenere tutte le motivazioni iniziali. Altre hanno portato alle piattaforme come Uber che, in nome delle efficienze (e dei guadagni per chi possiede la piattaforma), sono di fatto la negazione dei valori sociali e ambientali da cui si era partiti.
Molti altri esempi possono essere fatti. Se l’idea di un sistema collaborativo di passaggi in auto è potuta diventare Uber, quella della condivisione del divano di casa è diventata Airbnb. Similmente, una piattaforma di scambi di cose tra pari ha portato ad Amazon. E così via. Certo, ognuno di questi colossi è una sconfitta delle idee iniziali e di chi ci credeva. Ma per fortuna non ci sono solo questi casi. Ce ne sono altri in cui l’idea iniziale è evoluta e si è rafforzata senza perdere la sostanza dei valori di partenza: i giardini di comunità esistono da anni e hanno trovato il modo di organizzarsi e definire la propria esistenza come nuovo bene comune. Lo stesso si può dire per gli originali co-housing totalmente autogestiti, cui si sono affiancate altre modalità di abitare collaborativo capaci di durare nel tempo, alleggerendo gli impegni organizzativi di tutti, mantenendo le qualità originali e aprendosi al quartiere.
Anche per le innovazioni sociali, come per tutti i processi di sviluppo di un prodotto o di un servizio, le strade che possono essere seguite per andare dall’idea iniziale alla soluzione matura sono diverse. E che quindi le qualità ricercate e i valori caratterizzanti l’idea originale possono evolvere in diversi modi secondo le scelte progettuali che si fanno e le politiche pubbliche che, alle diverse scale, vengono messe in atto. Per capire come procedere, bisogna prima di tutto mettere meglio a fuoco i valori collegati all’innovazione sociale nella sua forma originale e che non si vorrebbe che andassero perduti nell’evoluzione successiva.
L’innovazione sociale ha mostrato che le persone possono scegliere di operare in modo collaborativo e stabilendo relazioni di cura reciproca e per l’ambiente. Il che sembra semplice e vicino alla natura sociale degli esseri umani. Ma è esattamente l’opposto di ciò verso cui ci portano le idee e le pratiche insostenibili oggi dominanti.Quando e dove le persone hanno scelto, e concretamente potuto, collaborare, hanno trovato come affrontare problemi e al tempo stesso generare inedite forme di comunità e di beni comuni. Più precisamente, hanno mostrato (o meglio: hanno reso nuovamente evidente) che, oltre ai beni privati e quelli pubblici, ci sono anche i beni comuni. Tra cui quelli che queste nuove comunità, con le loro attività collaborative, possono generare. Questo valore sociale dell’innovazione sociale è diventato il suo aspetto più visibile e caratterizzante. Ma crediamo che, per capirne davvero il significato e le potenzialità, occorra sottolineare anche, e prima di tutto, la sua capacità di risolvere problemi intrattabili. Cioè problemi che altrimenti (vale a dire senza quel cambiamento di punto di vista di cui l’innovazione sociale è conseguenza) sarebbero irrisolvibili.
Per esempio, consideriamo il tema degli anziani e della crescente domanda di cura che esprimono. Nelle società industriali mature e nelle parti più globalizzate di quelle emergenti la risposta standard è: bisogna creare per loro servizi sociali professionali dedicati. Ma in queste stesse società, dove la piramide demografica si è rovesciata e ci sono più anziani che giovani, tale risposta da sola non può più funzionare. E questo anche se si dedicassero allo scopo molte più risorse di quello che si fa oggi. In altri termini, siamo di fronte a un problema che, proposto in questo modo, appare insolubile. D’altro lato è noto che, quando una domanda non trova risposte occorre riformulare la domanda, cioè ridefinire il problema. Il che, nel nostro caso, significa ridefinire che cosa si intende per anziano. Nella modalità standard ci si è basati su un’idea di anziano come portatore di problemi (e quindi di domanda di aiuto), cui il privato o il pubblico devono rispondere.
Ridefinire il problema implica invece considerare gli anziani come persone che, in maggior o minor misura, dispongono di risorse, ovvero di capacità, competenze e reti sociali. Questo cambiamento di prospettiva è uno dei pilastri dell’innovazione sociale di cui stiamo parlando: considerare le persone, in questo caso gli anziani, non solo dalla parte dei problemi (che pure esistono) ma anche delle soluzioni. Nello specifico, riconoscere e valorizzare la loro volontà/possibilità di cittadini attivi nel creare comunità, evitando l’isolamento dei singoli, con il coinvolgimento di imprese sociali e associazioni. Rispetto al tema della cura degli anziani, questa mossa iniziale ha portato a numerose innovazioni sociali, come i circoli di cura, i co-housing per anziani e le residenze intergenerazionali: soluzioni diverse ma con il tratto comune di considerare le persone anche per ciò che sono capaci e disposte a fare per sé e per gli altri.
Qualcosa di simile sta alla base di tutte le innovazioni cui qui facciamo riferimento: esse producono un cambiamento sistemico locale generato dal riconoscimento e dalla valorizzazione di qualche risorsa disponibile ma poco utilizzata. Nell’esempio ora portato, la risorsa poco utilizzata erano le capacità degli anziani. Qualcosa di simile vale per gli altri esempi prima ricordati. Nel caso del car pooling erano i posti liberi nell’automobile e le capacità di guida del conducente (che, invece di guidare solo per sé può, con lo stesso sforzo, farlo anche per due o tre passeggeri). In quello dell’abitare collaborativo era la capacità degli inquilini di organizzarsi per gestire assieme degli spazi e dei servizi. In tutti i casi ciò che rende possibili questi modi di fare è la scelta di mettere in comune delle risorse e raggiungere dei risultati collaborando.
Che cosa porta tutto questo al tema dello sviluppo dei servizi pubblici e collaborativi? Prima di tutto, come si è già detto, porta la motivazione di fondo: i servizi pubblici collaborativi sono necessari per stimolare e supportare l’innovazione sociale. Ma non solo. L’innovazione sociale ci dice che c’è un doppio legame tra la possibilità di risolvere problemi e la volontà, e la concreta possibilità, di collaborare. I servizi collaborativi devono creare le condizioni affinché questo doppio legame tra volontà e possibilità possa esprimersi. E, così facendo, possa produrre nuova innovazione sociale.
Riassumendo: le innovazioni sociali ci dicono che i problemi che sembrano intrattabili spesso possono essere affrontati e risolti ridefinendo il sistema in cui si collocano. Precisamente, valorizzando risorse poco o mal usate e mettendo al centro non i soggetti isolati ma i gruppi di cittadini che scelgono di collaborare. Per cui, essendo attività collaborative, le pratiche che ne emergono, mentre realizzano prototipi di soluzioni praticabili, contribuiscono anche a rigenerare localmente il tessuto sociale e a produrre nuove visioni, nuove idee di qualità, nuove culture.
In effetti, come si è anticipato, se oggi si parla di welfare di comunità o di città della prossimità (come dire: nuove visioni di benessere e di città) è anche e soprattutto perché ci sono stati due decenni di innovazioni che nel concreto hanno lavorato in questa direzione. Lo stesso vale per il cibo e l’agricoltura con la visione di un sistema agricolo-alimentare che sia «buono, pulito e giusto». Su ciascuno di questi terreni sono emerse delle visioni d’insieme che, pur non essendo maggioritarie, ormai sono presenze consistenti nella conversazione sociale.Ma non c’è solo questo. A noi pare che queste esperienze siano state anche il terreno di coltura per trasformazioni più profonde; che siano emerse idee di tempo, spazio e relazioni che superano le visioni riduttivistiche della modernità, per diventare concetti complessi: un tempo che non è solo accelerato e lineare; dei luoghi cosmopoliti in cui le reti locali si intrecciano con quelle globali; degli spazi ibridi, in cui la dimensione digitale si intreccia e supporta quella fisica; delle relazioni che ritrovano la capacità di cura: cura tra le persone, cura per quello che si fa, e cura dell’ambiente. Tutto ciò porta a rompere i modi di fare e di pensare dominanti.
Per cui capita che gli abitanti di un co-housing, i membri di un gruppo di mutuo-aiuto e quelli di un gruppo di acquisto, i cittadini che sono parte di una comunità energetica e di un comitato per la rigenerazione di un quartiere, coprano ruoli che li vedono allo stesso tempo utenti e produttori. Siano radicati in un luogo ma anche collegati ad altri simili, ovunque si trovino. Si diano da fare perché ne hanno bisogno e al tempo stesso perché sono contenti di farlo. Tutti loro, in modo consapevole o meno, sono persone che hanno cominciato a pensare e ad agire superando le polarità convenzionali tra privato e pubblico; locale e globale; consumatore e produttore; bisogno e desiderio.
A fronte di tutto ciò possiamo chiederci, di nuovo, che cosa porti tutto questo al tema dei servizi pubblici collaborativi. La risposta è che dobbiamo vederli non solo come promotori di soluzioni a problemi locali ma altresì come laboratori culturali capaci di generare nuovi modi di vedere il mondo. Questo significa che, per valutarne il significato e l’impatto, è necessario considerare entrambe le dimensioni, ricordando che la seconda, quella della produzione culturale, non va valutata solo nei limiti della specifica iniziativa ma anche in ragione di quello che può lasciare su scala più ampia e su tempi più lunghi. In altre parole, ogni iniziativa locale che attiene ad attività collaborative contribuisce a costruire una cultura che va ben al di là delle dimensioni e della durata dell’iniziativa stessa.