Il quinto rapporto sullo Stato di diritto nell’Unione europea, pubblicato mercoledì 24 luglio dalla Commissione, ha consegnato un quadro virtualmente stabile della situazione nei Ventisette. Tutto sommato, dicono dal Berlaymont, la situazione è in miglioramento in buona parte degli Stati membri. In altri, come l’Italia, si registrano invece degli sviluppi negativi. L’Ungheria di Viktor Orbán è la solita pecora nera del blocco, mentre la Polonia, sotto la guida di Donald Tusk, sta compiendo progressi significativi.
Il report è il prodotto finale di un ciclo di lavoro che impegna annualmente l’esecutivo comunitario. Si tratta del braccio preventivo all’interno dell’armamentario dell’Ue per la tutela dello Stato di diritto. Tradotto, significa che questo processo è inteso come un dialogo (auspicabilmente costruttivo) tra le capitali e Bruxelles, con quest’ultima che individua le lacune nei sistemi legali nazionali e chiede per così dire «gentilmente» ai governi di porvi rimedio.
Dopo questa fase ne seguono altre di interlocuzione, durante le quali gli Stati membri dovrebbero mettere in campo le misure adeguate – o giustificare il ritardo nella loro adozione. Se la situazione rimane invariata (o addirittura peggiora), vengono attivati i meccanismi coercitivi: dalle procedure di infrazione fino alla cosiddetta «opzione nucleare», cioè l’attivazione dell’articolo sette del Trattato (Tue), che se condotto alle sue estreme conseguenze può portare alla privazione dei diritti di voto in seno al Consiglio del paese contro cui viene azionato. Al medesimo armamentario appartiene anche il famigerato meccanismo di condizionalità relativo ai fondi di coesione, in base al quale gli esborsi dal bilancio comunitario vengono congelati laddove sia accertata una «seria e persistente» violazione dei valori fondanti l’Unione, contenuti nell’articolo due del medesimo Trattato.
A contribuire gli input per queste indagini, che monitorano lo stato di salute delle democrazie europee, sono una grande varietà di attori, sia istituzionali che appartenenti alla società civile. A loro volta, le cancellerie hanno modo di produrre spiegazioni e chiarimenti, nonché di proporre correzioni e modifiche al testo originale, concordate con il Collegio dei commissari.
L’analisi della Commissione si articola lungo quattro assi principali: i sistemi giuridici nazionali (soprattutto per quanto riguarda l’indipendenza della magistratura, l’efficienza delle strutture giuridiche e la qualità del loro funzionamento), i meccanismi e gli organi anti-corruzione, la libertà e il pluralismo dell’informazione e i cosiddetti pesi e contrappesi istituzionali, cioè l’insieme degli elementi che gli ordinamenti statali mettono in campo per salvaguardare la divisione dei poteri e per impedire la cattura del potere da parte degli interessi particolaristici (secondo la lezione di Montesquieu).
Secondo la commissaria ai Valori e alla trasparenza, Vera Jourová, e il commissario alla Giustizia, Didier Reynders, che hanno presentato il documento ai giornalisti, la percentuale delle raccomandazioni del rapporto 2023 che sono state effettivamente implementate dai Ventisette è aumentata fino a toccare il sessantotto per cento.
Il nostro Paese non esce benissimo da questo esercizio di controllo. Anzitutto, Jourová ha garantito che il ritardo nella pubblicazione del rapporto – che indiscrezioni giornalistiche avevano attribuito alla volontà politica della presidente Ursula von der Leyen di non alienare il favore della premier Giorgia Meloni – è dipeso unicamente da considerazioni circa l’attenzione mediatica, che sarebbe stata maggiore in questo momento e non in concomitanza con le elezioni europee.
All’Italia, che ha ricevuto sei raccomandazioni, sono stati rimproverati dei passi indietro soprattutto sul capitolo della libertà di stampa, a causa della mancata trasposizione delle norme cosiddette anti-Slapp (cioè contro le «querele temerarie» a danno dei giornalisti) e della mancata riforma del quadro normativo sulla diffamazione (che danneggia sia i cronisti che gli attivisti per i diritti umani). Vengono inoltre citati i numerosi episodi di aggressioni (verbali e fisiche) contro i giornalisti, nonché quelle nei confronti dei manifestanti (come i manganelli sul corteo di Pisa), tendenze preoccupanti che «restringono lo spazio civico» nel Belpaese.
Quanto alla riforma della giustizia del guardasigilli Carlo Nordio, la Commissione ha messo in guardia circa il fatto che «la nuova legge che abroga il reato di abuso d’ufficio e limita la portata del reato di traffico d’influenza potrebbe avere implicazioni per l’individuazione e l’investigazione di frodi e corruzione» , mentre emergono dubbi anche sulla riduzione dei tempi della prescrizione. Male anche l’emendamento Costa, che introduce il divieto di pubblicazione «integrale o per estratto» del testo dell’ordinanza di custodia cautelare fino all’inizio del processo: una restrizione della libertà di stampa e un’esposizione maggiore dei giornalisti agli abusi del potere politico.
L’Ungheria del premier ultranazionalista Viktor Orbán, vero e proprio cavallo di Troia del Cremlino all’interno dell’Unione, si conferma anche quest’anno fanalino di coda tra gli Stati membri in termini di qualità democratica. Budapest ha collezionato il maggior numero di raccomandazioni, ben otto, per i mancati progressi rispetto all’anno scorso su una serie di questioni che vanno dall’influenza politica sulla magistratura al contrasto alla corruzione di alto livello, passando per le intimidazioni verso attivisti e difensori dei diritti umani e per un panorama mediatico sempre più povero di voci indipendenti e su cui le maglie del potere continuano a stringersi.
Per questo motivo, si legge nel documento, i fondi europei restano bloccati, dato che «non sono state adottate nuove misure per risolvere le questioni in sospeso», per le quali Bruxelles ha manifestato «seria preoccupazione». Storia diversa, a sentire Reynders, per quei 10,2 miliardi di euro erogati l’anno scorso alle casse dello Stato magiaro: quelli erano stanziamenti connessi al Pnrr, che sono stati sbloccati in seguito al raggiungimento degli obiettivi formulati in concerto con la Commissione, soprattutto una parziale riforma della giustizia (che infatti figura come uno dei pochi successi riconosciuti al Paese dal rapporto). Che quel pagamento fosse arrivato in coincidenza con il ritiro del veto ungherese all’avvio dei negoziati di adesione dell’Ucraina, dunque, dev’essere stata solo una curiosa coincidenza.
Promossa invece la Polonia, che è arrivata a questo appuntamento con il primo governo guidato dal centrista Donald Tusk (membro dei Popolari europei di von der Leyen) anziché dalla destra ultraconservatrice del Pis (che in Europa è alleata dei Fratelli d’Italia). Un esito del resto già anticipato lo scorso maggio con la chiusura della procedura ex articolo sette che era stata lanciata anche nei confronti di Varsavia nel lontano 2017.
Per la Commissione, «alcuni degli effetti» della controversa riforma della giustizia avviata in quell’anno (che fu all’origine dello scontro frontale con Bruxelles) «si stanno invertendo», mentre il nuovo Piano d’azione sullo Stato di diritto del nuovo esecutivo polacco sembra avere le carte in regola per «affrontare le preoccupazioni di lunga data relative all’indipendenza giudiziaria».
Tra i passi avanti riconosciuti al Paese c’è anche la separazione delle funzioni del ministero della Giustizia da quelle del Procuratore generale (se pare poco), così come la situazione dei mezzi d’informazione che ha visto l’introduzione di «meccanismi per migliorare la governance indipendente e l’indipendenza editoriale dei media del servizio pubblico». Progressi più limitati, invece, sulla corruzione di funzionari di alto livello e sulle norme che regolano le attività di lobby.
Infine, la questione spagnola. La controversa legge sull’amnistia voluta dal premier Pedro Sánchez per mantenere in vita il suo governo, che si tiene in piedi grazie ai voti decisivi degli indipendentisti catalani, era l’osservata speciale da parte della stampa. Ma quelle sull’avvio di una procedura d’infrazione contro Madrid sono niente più che «speculazioni», secondo la commissaria Jourová. La quale si è limitata a ribadire ai cronisti che l’esecutivo Ue ha chiesto «chiarimenti» alle autorità spagnole, ma che «non ci sono scadenze» per esaminare la situazione e che dunque la valutazione di Bruxelles prenderà ancora del tempo.