UomaI pregiudizi linguistici sulle donne che fanno politica

In questo estratto de “La lingua della neopolitica”, Michele Cortelazzo analizza gli innegabili risvolti linguistici dell’attribuzione a donne di cariche di rilievo. Quando raggiungono posizioni elevate sono spesso oggetto di commenti sessisti e denigratori, che non hanno equivalenti maschili

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L’attribuzione a donne di cariche di rilievo ha degli innegabili risvolti linguistici. Non mi riferisco alla femminilizzazione del nome delle cariche (la presidente, la ministra, la sindaca), che dovrebbe essere fuori discussione, in quanto semplice applicazione delle regole di selezione del genere nella lingua italiana, ma alle scelte lessicali che emergono nelle polemiche che coinvolgono le donne politiche.

Qualche traccia se ne è avuta durante gli infruttuosi tentativi di individuare una candidatura femminile per la presidenza della Repubblica nel gennaio 2022. Sono state numerose, specie nei mesi precedenti alle elezioni, le dichiarazioni di principio che auspicavano che si prendesse in considerazione anche qualche donna. Ma nei giorni delle votazioni, non sempre gli esponenti politici sono stati così espliciti e, per ragioni di variazione o per ossequio a quella abitudine al parlare obliquo che è tuttora frequente nel linguaggio politico o perché, al di là delle dichiarazioni, imperava una rimozione dell’idea che ci potesse essere una presidente, hanno fatto ricorso a perifrasi come candidature femminili di assoluto valore, candidature con autorevoli personalità anche femminili (entrambi in dichiarazioni di esponenti del Partito democratico) o eccellenze femminili («solide e super partes») di Conte.

Qualche volta il generico una donna è stato accompagnato da specificazioni. Matteo Salvini nella giornata del 28 gennaio, cruciale per il tentativo di proporre una presidente della Repubblica, ha dichiarato: «Sto lavorando perché ci sia un presidente donna, una donna in gamba, non un presidente donna in quanto donna, un presidente donna in gamba»; a sua volta Giuseppe Conte, in una dichiarazione più complessa: «Ma io spero che ci sia la sensibilità da parte di tutto il Parlamento per la possibilità di una presidente donna […] ma non la donna come omaggio al genere femminile. Abbiamo delle figure assolutamente che corrispondono a quell’alto profilo, autorevolezza, quella natura super partes e offrono quelle garanzie di poter rappresentare tutti i cittadini» (e si noti la differenza tra un presidente donna di Salvini e una presidente donna di Conte, il quale, tuttavia, talvolta usa anche l’altra forma).

Queste dichiarazioni hanno in comune il fatto che i due politici hanno sentito la necessità di specificare che ricercavano una donna in gamba, una donna non come omaggio al genere femminile. Nel caso dei candidati maschi non mi risulta che si fosse specificato che era necessario indicare uomini in gamba: è un dato scontato. Perché è necessario farlo per le donne?

La richiesta di individuare una candidata «non in quanto donna» si trova anche in un articolo di Pierfranco Pellizzetti, su “Micromega” del 5 gennaio 2022, che interpreta in questo modo l’atteggiamento dei politici (e presenta anche l’occasionalismo polemico uoma): «Dunque, un presidente donna in quanto donna non in quanto portatrice di felici discontinuità. I nomi che sinora sono saltati fuori: una pletora di “uome”; politicanti di lungo corso ormai irrimediabilmente maschilizzate».  Se non si è avuta una presidente della Repubblica, si è avuta una presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Che è stata subito accolta da un commento denigratorio: «Il ritorno della pescivendola. Che imbarazzo». A scrivere queste parole è stata il 23 novembre 2022 la giornalista free lance Jeanne Perego, che ha accompagnato così un video che riproduceva un momento di una conferenza stampa di Giorgia Meloni, quello in cui la presidente del Consiglio, dopo aver annunciato che doveva congedarsi, è rimasta, palesemente controvoglia, a rispondere ai giornalisti, senza evitare battute polemiche e allusive.

L’uso della parola pescivendola con intento chiaramente denigratorio ha dato luogo a numerose reazioni. La più rilevante è stata quella del ministro della Difesa, Guido Crosetto, che, pur riconoscendo il diritto di critica, si è chiesto perché mai la giornalista avesse ritenuto di offendere la presidente «in modo greve e volgare» (ma sui social gli sono stati rinfacciati dei ben più pesanti post, in cui insultava chi aveva posizioni diverse dalle sue con l’epiteto di coglione). Ho letto anche commenti nei quali si nota il classismo di chi utilizza il nome di un mestiere ritenuto modesto per offendere una persona.

In realtà, quanti attribuiscono a Giorgia Meloni questo epiteto lo fanno con una motivazione, ripetuta in molti commenti: la tendenza della presidente del Consiglio ad alzare la voce (c’è chi la accusa di «sbraitare») nei suoi interventi. Tra le tante testimonianze di questa accusa, riporto quella di Andrea Scanzi, il 17 gennaio 2021, a “Otto e mezzo”: «peraltro la Meloni se fosse lì da voi in studio le chiederei di urlare un po’ di meno quando è alla Camera, si chiama Montecitorio, si chiama Camera, non è il mercato del pesce».

L’epiteto di pescivendola non viene attribuito a Giorgia Meloni solo ora. Possiamo risalire almeno al 27 dicembre 2019, quando in “Gayburg”, «blog di informazione, attualità e cultura gay», è stata pubblicata questa frase: «Ed è patetico come questa donna che infrange la legge ami sbraitare come una pescivendola». Accanto a pescivendola ricorre la variante pesciaiola. Il caso più eclatante è stato quello di Giovanni Gozzini, storico dell’Università di Siena, che il 20 febbraio 2021 ha definito con enfasi l’allora presidente di Fratelli d’Italia in questo modo: «Questa pesciaiola…», aggiungendo subito: «Mi dispiace d’offendere questi negozianti».

Giorgia Meloni non è stata, però, la prima politica a essere definita pescivendola. Ho trovato un’attestazione del 4 maggio 2007, in un blog chiamato “Tafanus”, in riferimento a Michela Vittoria Brambilla («ma davvero il Cav. pensa ad una vaiassa pescivendola per la sua successione a Forza Taglia???»); il sito www.appiapolis.it (18 gennaio 2019) documenta l’uso di pescivendola all’interno del Partito democratico («la Picierno che, in piena campagna elettorale europea, diede della pescivendola alla deputata e segretaria del Partito democratico campano Assunta Tartaglione»). Ma il precedente più esteso è quello che riguarda Paola Taverna, esponente di rilievo del Movimento 5 stelle, che ha spesso ricevuto questo appellativo per alcune sue caratteristiche molto simili a quelle di Giorgia Meloni (passionale, romana, proveniente da un quartiere popolare). Dal profilo propostoci da Francesco Merlo nel suo blog (17 febbraio 2016) ricaviamo questi particolari: «Di sicuro sono orribili le volgarità degli incarogniti del twitter e di facebook che la chiamano “pescivendola” e persino “diarrea umana”». Nei social troviamo commenti davvero pesanti; ancora il 19 aprile 2021, cioè cinque anni dopo il rilievo di Merlo: «Serve rispetto? Cara pescivendola miracolata #Taverna, ma veramente? E le speculazioni da sciacalli sulla #Boschi? Parlaci di #Grillo, dai, dicci cosa ti hanno detto di pensare!».

Ma pescivendola impallidisce, come ingiuria, a fronte del puttana che è stato indirizzato alla presidente del Consiglio da parte di alcune persone (tutti uomini, se non ho visto male), reduci dalla manifestazione della cgil dell’8 ottobre 2023: queste persone, nella metropolitana di Roma hanno intonato il coro «la Meloni è una puttana». Giorgia Meloni, ha ricevuto la più ampia solidarietà (e ci sarebbe mancato altro) per questo attacco di particolare gravità: perché si è trattato di un insulto diretto ed esplicito («Meloni è…») e di una ingiuria sessista.

L’epiteto rivolto a Giorgia Meloni è stato più volte rivolto a donne che hanno raggiunto posizioni rilevanti in politica o in altri campi: mi sovviene il vecchia puttana con cui un Beppe Grillo non ancora direttamente impegnato in politica ha apostrofato nel 2001 Rita Levi Montalcini. O il coro che nel 2012 ha accolto alla Fiera di Bergamo Rosy Mauro, appena espulsa dalla Lega Nord («Badante puttana lo hai fatto per la grana»). O la sequela di insulti ricevuti dall’al- lora presidente della Camera Laura Boldrini, da lei stessa resi pubblici (soprattutto in commenti su Facebook, come quello che la definiva, nel 2017, «puttana, nipote di un criminale partigiano»).

Ma colpisce anche di più l’uso della parola da parte di Cateno De Luca (ora sindaco di Taormina, dopo esserlo stato di Messina, e leader del movimento Sud chiama Nord). Un paio di giorni prima dell’ingiuria rivolta a Giorgia Meloni, aveva dichiarato, in riferimento alla senatrice Dafne Musolino, che aveva lasciato il suo movimento e aveva aderito a Italia viva: «Mi fa schifo l’atteggiamento di Matteo Renzi che ieri all’hotel Bernini, durante un tavolo politico e davanti ad interlocutori, ha dato nei fatti della “puttana politica” a Dafne Musolino». Per quanto De Luca attribuisca a Matteo Renzi il pensiero, ma non, a quel che capisco, l’espressione («ha dato, nei fatti») e cerchi di trasformare l’ingiuria da generica a politica, grazie all’aggettivazione, colpisce che nel giro di solo un paio di giorni due donne impegnate in politica siano state apostrofate con un’offesa fortemente insultante, usata solo nei confronti di donne.

È questo, infatti, il punto. Ingiurie ed espressioni denigratorie sono comuni in politica. Ma quelle rivolte a donne hanno delle particolari caratterizzazioni volgari o sessiste, che non hanno pari nelle ingiurie rivolte a politici maschi. Non mi è mai capitato di riscontrare esempi di pescivendolo, al maschile, mentre la carica sessista di puttana non ha bisogno di essere dimostrata e, comunque, non mi viene in mente nessuna espressione equivalente attribuita a un politico maschio.

Tratto da “La lingua della neopolitica” (Treccani) di Michele A. Cortelazzo, 19,00 €, pp. 248

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