Distretti 4.0La Lombardia guida la politica industriale dell’Italia

La regione fa a meno del governo di centrodestra, semmai guarda a Bruxelles, e fa da ponte tra i grandi gruppi del Paese e le piccole e medie imprese distribuite sul territorio. E per farlo non ha nemmeno dovuto aspettare l’autonomia differenziata

Lapresse

Guido Guidesi, assessore allo Sviluppo economico della Regione Lombardia, si è messo in testa di rifare i distretti. Non quelli anni Novanta esaltazione del fai-da-te delle piccole e medie imprese italiane, ma una versione 4.0: filiere da porre sotto l’ombrello di grandi campioni italiani e di peso europeo. Ma è tutto il progetto che guarda più a Bruxelles che a Roma e alla nuova strategia industriale decisa nell’ultima fase della Commissione von der Leyen 1, quella finita con il voto di giugno, ma che è stata confermata nelle linee guida della Commissione von der Leyen 2 appena insediata.

La prima uscita ufficiale del piano è avvenuta il 9 luglio scorso presso l’Auditorium di Palazzo Lombardia, sede della Regione: oltre centoventi imprese lombarde presenti all’incontro indetto per gettare le basi di una filiera “corta” dell’aerospazio attorno al polo elicotteristico varesino del gruppo Leonardo. L’idea è, in buona sostanza, quella di sfruttare l’attuale fase dell’industria manifatturiera, che per cautelarsi di fronte alle incertezze del quadro geopolitico mondiale, sta lavorando ovunque nel mondo all’accorciamento delle filiere di fornitura.

L’idea di Guidesi è che finora è mancato sul territorio un soggetto in grado di fare da cerniera tra le esigenze dei grandi gruppi industriali e il tessuto delle piccole e medie imprese, dove si possono annidare grandi potenzialità. Che però nessuno è stato ancora in grado di scoprire.

Anche un gruppo come Leonardo, che ha una lunga tradizione di radicamento in Lombardia, non ha la possibilità di conoscere se entro un raggio di cento chilometri ci siano imprese che, con l’opportuna formazione e lo scambio di parametri produttivi, possano inserirsi in processi industriali di livello superiore. Con vantaggio da entrambe le parti. Per Leonardo, l’arricchimento del suo portafoglio fornitori con imprese che operano a pochissima distanza e quindi con opportunità di dialogo e di interrelazioni molto più facilitate. Per le Pmi coinvolte, la possibilità di ampliare il loro raggio d’azione o anche di fare il primo salto di qualità verso gli standard della grande industria globale.

Al piano, Guidesi lavora da oltre un anno, da quando ha scoperto che esiste un associazionismo industriale europeo trasversale ai confini nazionali. E si è convinto che la politica industriale si può fare dal basso, partendo dai territori e diventando direttamente interlocutori di Bruxelles. Forte di questo attivismo europeo è diventato prima presidente dell’Alleanza delle regioni europee dell’industria automotive, poi dell’Ecrn, l’European Chemical Regions Network, l’associazione dei distretti chimici europei.

Se le regioni industriali europee devono diventare filiere per i grandi campioni europei, allora le regioni industriali italiane devono fare lo stesso attorno ai campioni nazionali: convergere verso la strategia europea rafforzando al tempo stesso il tessuto economico italiano. E questo crea un altro vantaggio sul fronte delle risorse. La Regione ha relativamente pochi fondi. Per statuto i fondi dell’Assessorato allo Sviluppo Economico sono al novantotto per cento quelli del fondo europeo Fesr, quello per lo sviluppo delle economie regionali. E devono essere indirizzati alle Pmi. Ma in tal modo, lavorando per creare un canale di dialogo e collaborazione diretta tra grandi imprese e piccole, si dà implicitamente una mano anche ai grandi campioni nazionali.

Tutto questo è quello che si chiama politica industriale. Il fatto è che dovrebbe farla il governo centrale, ma a Roma i risultati non si vedono. Sull’automotive si sta ancora a girare attorno all’accordo con Stellantis (che intanto si sta vendendo Comau, il gioiello italiano dell’automazione industriale). Sulla transizione energetica il governo ha lasciato la palla alle Regioni (vedere il caso Sardegna dove si vogliono bloccare tutti i nuovi impianti di rinnovabili, eolico offshore compreso, mettendo a rischio gli obiettivi energetici che la Ue ci ha assegnato). Sulla crisi idrica, la riforma del sistema acqua del 1994 non è stata ancora completata e per fare un nuovo acquedotto ci impieghiamo in media dieci anni. Una catastrofe che il governo Meloni ha ereditato ma nell’estate con mezza Italia senz’acqua forse qualcosa in più potevano almeno provare a fare, se non altro per tener fede allo slogan meloniano “Siamo pronti”.

Di fatto la politica industriale del governo è ferma al Pnrr e dipende dai numeri che il ministro per i rapporti Europei Raffaele Fitto snocciola periodicamente per convincere Bruxelles, prima ancora degli elettori italiani, che l’utilizzo dei fondi Ue è a buon punto. Speriamo sia vero, ma questa è, appunto, la politica industriale europea, E meno male che c’è. Tolto questo resta il ponte sullo Stretto di Matteo Salvini. Ed è davvero una ben strana coincidenza che a stilare gli unici piani di politica industriale oggi in Italia sia una Regione a guida leghista. Anche se è vero che la Lega targata Lombardia sembra guardare più alla componente Giorgetti-Zaia che non ai duri e puri del sovranismo all’italiana.

Potrebbe però,a questo punto, rimanere il dubbio che quella del Pirellone sia sì politica industriale, ma di livello regionale. Buona per mantenere la crescita della locomotiva industriale italiana ma senza ricadute, se non indirette, sul resto del Paese. Ma a Palazzo Lombardia già si parla di dialogare con progetti gemelli nelle altre regioni italiane. A partire da quelle a più alto tasso manifatturiero, dal Piemonte al Veneto, alla Liguria: tutte non a caso guidate dal centro-destra. Anche se tra le righe pare di capire che le prime novità in questa direzione potrebbero venire invece dall’Emilia dem. Una macchina tutta nuova per la governance industriale che, una volta a regime, potrebbe anche diventare il vero agente di una nuova industrializzazione al Sud. Perché se la politica industriale la fanno le regioni ci sono più garanzie di un utilizzo efficace delle risorse.

Se funzionerà, il vantaggio sarà per tutti. Intanto almeno c’è un progetto. C’è rischio di frammentazione delle politiche industriali? Sulla carta no: perché sono i grandi gruppi, e quindi il mercato, che tracciano le direzioni strategiche e garantiscono unitarietà e logica ai singoli piani. E poi perché negli ultimi anni è aumentata la capacità delle regioni di interloquire direttamente con le istituzioni europee. E lo fanno con maggiore efficacia in tutti i casi in cui portano avanti posizioni non nazionali ma sviluppate assieme alle altre regioni europee per ogni singolo settore.

Se la Commissione europea alla fine cambierà le sue strategie sulla mobilità verde rivedendo il piano tutto centrato sull’auto elettrica, lo avrà fatto per le pressioni dell’intero automotive europeo, non solo Daimler, Vw, Stellantis e Renault. E molto meno per le capacità di persuasione del governo di Roma. E pensare che per fare questa rivoluzione di governance non c’è nemmeno stato bisogno di riforme costituzionali e autonomie differenziate. È bastato far funzionare quel che già c’è.

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