La scelta di StrasburgoIl Parlamento europeo ha il dovere di trovare un’alternativa a Ursula von der Leyen

Gli eurodeputati non devono accettare in maniera supina la candidata scelta dal Consiglio europeo. Devono esigere un presidente della Commissione che possa superare i problemi di trasparenza, responsabilità e gestione dell’ultimo quinquennio e che possa mantenere una posizione chiara e ferma sui diritti umani e lo Stato di diritto

LaPresse

La Commissione europea ha censurato in maniera illegittima alcune rilevanti informazioni contenute nei contratti per i vaccini contro il Covid-19, e ora a lamentare scarsa trasparenza non è solo la presidente dell’apposita commissione speciale del Parlamento europeo Kathleen van Brempt (S&D), ma anche la Corte di Giustizia dell’Unione europea, che si è espressa in merito ad alcuni ricorsi presentati contro le decisioni dell’istituzione presieduta da von der Leyen.

A un giorno dal voto di fiducia per il rinnovo del mandato di Ursula von der Leyen come presidente della Commissione, il Tribunale dell’Unione Europea al quale si erano appellati membri del Parlamento europeo afferenti al gruppo dei verdi e privati cittadini ha stabilito che l’esecutivo europeo non ha spiegato in maniera sufficiente le ragioni per le quali ha deciso di limitare l’accesso al pubblico di alcuni dettagli, che sono stati letteralmente oscurati, inclusi nei contratti stipulati con le case farmaceutiche. In particolare, i magistrati hanno chiarito che un più ampio accesso alle clausole limitative della responsabilità delle imprese produttrici in caso di danni ai consumatori non avrebbe comportato un pregiudizio dei diritti commerciali delle stesse.

I giudici hanno anche evidenziato la responsabilità del guardiano dei trattati europei nel non aver garantito un adeguato bilanciamento del principio di trasparenza relativo all’assenza di conflitto di interesse dei membri della squadra negoziale della Commissione e la tutela del diritto alla privacy di quest’ultimi, sfavorendo eccessivamente il primo a favore della seconda.

Le due sentenze politicamente dirimenti non riguardano l’indagine della procura europea, avviata nel marzo scorso, per appurare se vi siano stati eventuali illeciti penali a carico di von der Leyen nella gestione delle trattative con l’Ad di Pfizer Albert Bourla. Gli investigatori dell’Eppo avevano preso in carico l’indagine della procura belga, avviata su istanza dal lobbista locale Frédéric Baldan, al quale, solo successivamente, si sono aggiunte le denunce dei governi ungherese e polacco. I reati su cui si indaga sono «interferenza nelle funzioni pubbliche, distruzione di SMS, corruzione e conflitto di interessi».

Anche il New York Times aveva aperto un’inchiesta sulla negoziazione misteriosa che sarebbe avvenuta tramite sms, il cui contenuto non è stato rivelato.  E persino il difensore civico europeo, nel gennaio 2021, dietro sollecitazione del Parlamento europeo e dell’organizzazione senza scopo di lucro Corporate Europe Observatory (Ceo), aveva chiesto chiarezza sui contratti con le industrie farmaceutiche, ricevendo generiche rassicurazioni da parte della commissaria per la salute Stella Kyriakidou (Ppe). Ricordiamo che l’Ue ha acquistato 4,2 miliardi di dosi di vaccini, e con la sola Pfizer ha concluso un contratto da 1,8 miliardi unità nel 2021. superando di gran lunga il fabbisogno degli Stati membri e dando luogo a un esborso di contributi pubblici non necessario, come dichiarato a Report dall’eurodeputata van Brempt.

Una democrazia, per definirsi tale, non può consentire a un’istituzione che si regge sulla legittimazione del voto di un’assemblea eletta dal popolo di rifiutarsi di rispondere adeguatamente ai dubbi degli stessi parlamentari che la compongono. Le sentenze della Cgue sono la dimostrazione che il sistema delle istituzioni democratiche dell’Unione europea ha saputo sviluppare anticorpi, fondamentali per evitare che certi soprusi vengano passivamente recepiti e normalizzati.

C’è da dire  che il Parlamento europeo ha già sorvolato una volta sul passato opaco dell’allora candidata alla presidenza della Commissione. In effetti, von der Leyen, prima di essere designata per il ruolo che le è valso il titolo di «donna più potente del mondo» secondo il Time e Forbes, era già accusata di aver mal gestito il suo dicastero in Germania. Da ministra della Difesa non è stata in grado di garantire investimenti ed equipaggiamenti adeguati, ma, soprattutto, è finita sotto le lenti della Corte dei conti tedesca, e di conseguenza chiamata a rispondere davanti a una commissione d’inchiesta del Bundestag, per presunte consulenze esterne affidate senza gara, consulenze considerate inutili ed eccessivamente dispendiose. Il modus operandi parrebbe molto simile a quello che avrebbe utilizzato nella vicenda del Pfizergate.

In sede europea, nel 2019, von der Leyen ha saputo costruirsi un’immagine nuova, conquistando sul campo l’autorevolezza che le ha permesso di lanciare il coraggiosissimo progetto dello European Green Deal, e poi Next Generation Eu per la condivisione del debito durante la crisi pandemica. Anche l’attenzione ai diritti sociali e civili è stato un elemento centrale del suo mandato. Tuttavia, oltre alle gravi ambiguità della sua condotta in merito al terzo contratto con Pfizer, dopo che la pima inattesa e sconvolgente ondata del virus era stata da tempo superata, la leadership di von der Leyen ha mostrato tutti i suoi punti deboli, venuti a galla con il protrarsi della guerra di Putin in Ucraina.

In un primo momento, la sua determinazione è stata propulsiva affinché l’Unione agisse in maniera tempestiva e coesa, ma nel lungo termine l’incapacità di trovare modalità diplomatiche per far cessare la morte e la distruzione del conflitto ha reso le istituzioni europee non all’altezza del sogno di pace, già realizzato all’interno dei propri confini, che l’Europa unita ha sempre rappresentato, per i suoi cittadini e per il resto del mondo. Probabilmente, gli europei avrebbero sperato in un’Europa più efficace e coerente ai suoi valori.

Il mancato raggiungimento di questo risultato non è completamente attribuibile all’inamovibile posizione dell’ex ministra della Difesa tedesca rispetto alla strategia di gestione della crisi: come sappiamo la gelosia degli Stati membri rispetto alla propria sovranità, e in particolare di quei capi di Stato e di governo che rappresentano forze politiche nazionaliste, impedisce all’UE di prendere rapidamente decisioni cruciali su diversi questioni nevralgiche, politica estera inclusa. Ed è anche per via della guerra in Europa che l’atteggiamento di von der Leyen cambia progressivamente nei riguardi dei leader della destra populista.

La necessità di raggiungere continui compromessi per assicurare il necessario sostegno alla resistenza ucraina ha messo a dura prova l’intransigenza della presidente rispetto alla tutela dei diritti umani e al rispetto dello Stato di diritto, basti pensare al cambio di passo registrato nei rapporti tra Commissione e governi polacco e ungherese.

Con l’avvicinarsi delle elezioni europee, il Partito Popolare europeo, capeggiato da Manfred Weber, ha compiuto i primi passi per tentare di preparare un’alleanza strutturale con la destra dei Conservatori e Riformisti, fino ad allora rimasti isolati, esattamente come Identità e Democrazia. La vittoria di Giorgia Meloni alle politiche 2022 ha incentivato l’arguta sperimentazione, trascurando che nello stesso gruppo europeo di Fratelli d’Italia sedessero gli estremisti di Vox e del PiS polacco.

Con l’obiettivo di tenere buono il leader del suo partito, in vista dell’auspicata e ottenuta ricandidatura alla presidenza della Commissione, von der Leyen si è ammorbidita parecchio, assecondando la linea di non belligeranza con una certa destra, fino al giorno prima considerata anti-europeista, se non estrema.

Questo mutamento sostanziale delle relazioni tessute dalla capa della Commissione europea ha portato a un alleggerimento degli ambiziosi target del pacchetto normativo costitutivo del Patto verde, a un compromesso al ribasso – accordato in piena campagna elettorale – in favore degli agricoltori in protesta sui trattori per le politiche volute e proposte dalla stessa presidente, e – infine, ma non meno importante – all’adozione di un Patto per la migrazione e l’asilo che non risponde alle aspettative di cambiamento che la Conferenza sul futuro dell’Europa aveva fatto emergere, chiedendo una piena condivisione delle responsabilità nella gestione, umana, dei flussi migratori.

In effetti, negli ultimi tempi, ha trovato spazio in sede europea il cosiddetto modello Albania messo a punto da Giorgia Meloni per la deportazione delle persone migranti. Quest’ultimo poco differisce dal piano Sunak, che prevedeva il trasferimento dei richiedenti asilo in Ruanda, ma che è stato subito smontato dal nuovo premier britannico laburista Keir Starmer.

L’orientamento del pacchetto legislativo adottato all’Unione europea guarda all’esternalizzazione delle frontiere e implica generosi accordi con i paesi di origine e paesi cuscinetto come la Turchia, che – è risaputo – spesso rappresentano una minaccia per la vita di chi richiede rifugio nel Vecchio Continente. Il partenariato strategico e globale con l’Egitto, che porterà più di sette miliardi nelle mani di Al-Sisi, ne è l’ultimo drammatico esempio.

Nonostante tutto, il suo nome non è mai stato messo in discussione, almeno formalmente, dalla storica maggioranza europeista che in Parlamento ha sostenuto la Commissione von der Leyen nella nona legislatura e che è pronta a fare lo stesso tra poche ore. I malcontenti interni, legati soprattutto alle divisioni sull’attuazione del Green Deal, pare proprio verranno superati da popolari, socialisti e liberali, che le recenti elezioni europee hanno riconfermato alla guida dell’Eurocamera sebbene con qualche defezione. I tre gruppi, e forse anche i verdi, sono convinti che l’unica chance per portare avanti il progetto europeo abbia una sola sigla: Vdl.

In effetti, esponenti dell’area progressista temono che l’alternativa non possa che essere peggiore. In altre parole, c’è chi pensa che una bocciatura a von der Leyen crei spazio per un profilo meno centrista e più vicino all’ala destra del Ppe, il quale – ottenendo da sempre la maggioranza relativa dei voti – ha il diritto di esprimere il vertice dell’esecutivo europeo.

L’opzione di riserva più accreditata sarebbe quella del primo ministro greco Kyriakos Mītsotakīs, leader del partito conservatore Nuova Democrazia. Il gruppo dei Socialisti, probabilmente, non appoggerebbe qualcuno che accusa essere responsabile della debolezza dello stato di diritto in Grecia, come esplicitato in una risoluzione del Parlamento europeo adottata nel febbraio scorso. Ma pensare che accontentarsi del meno peggio possa far bene al futuro della nostra Unione non è confortante. L’Europarlamento ha il dovere di trovare un’alternativa presentabile, capace di far crescere l’Europa nel rispetto dei suoi valori e delle sue regole. Perché non ripartire dal consenso record ottenuto da Roberta Metsola?

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