Morire e rinascere. Dalla cenere. Ditemi voi se non c’è storia più siciliana di questa. Per elaborare il lutto hanno realizzato anche uno spettacolo: «Phos, io sono il fuoco». L’arte come esorcismo, dunque. Perché il fuoco fa sempre paura a Segesta, il grande parco archeologico distrutto da un incendio un anno fa, nel luglio del 2023, e adesso rinato. Lì, nelle colonne del maestoso tempio lambito dalle fiamme, il videomapping immersivo racconta di Prometeo, del fuoco che rigenera, che è strumento di vita e di ingegno, ma anche di distruzione «quando umani sciocchi e corrotti fanno uso di me».
Quella notte d’inferno, Luigi Biondo, il direttore del Parco, se la ricorda bene: «Vengo svegliato da una telefonata alle 3 e 17 della notte tra il 24 e il 25 luglio – dice, con la precisione che si ha per i momenti brutti della nostra vita. Subito ho pensato ai miei figli, a qualcosa di grave. Invece erano i vigili del fuoco che mi avvisavano che il parco di Segesta era assediato dalle fiamme. Un’ora dopo ero lì. Ho dovuto forzare il posto di blocco per passare e vedere da vicino cosa avveniva. E ho pianto, non solo per le fiamme e il fumo, ma perché, davvero, è come se mi avessero ucciso un figlio».
L’alba caldissima del 25 luglio trova volontari e personale sul posto, a fare i conti con la distruzione: «Il parco – continua Biondo – era diventato un gigantesco cumulo di terra nera». Centocinquanta ettari di terra bruciata. «Il lavoro di decenni», aggiunge. Ma, come accade spesso in Sicilia, dalla distruzione è venuta fuori una storia di rinascita.
E dopo trentasei ore, un giorno e mezzo, il parco era già di nuovo aperto al pubblico: «Doveva riaprire, dovevamo reagire», racconta oggi Biondo. I visitatori, tanti, si sono avvicinati al parco come ci si avvicina a un animale ferito, con silenzio e rispetto. I danni, oltre al bosco e alla macchia mediterranea, sono stati enormi anche alle infrastrutture del parco, dall’impianto fotovoltaico distrutto ai due chilometri di steccati completamente bruciati. Distrutti anche la biglietteria, il piccolo bar con il negozio di souvenir. Un anno dopo, la calendula e le palme nane sopravvissute coprono qua e là qualche macchia nerastra, i vigneti dietro il tempio dedicato ad Afrodite Urania contrastano con i buchi enormi di vegetazione tra le colline.
Il tempio, maestoso, sulla collina, sta, indifferente e protettivo. Accoglie ora al suo interno spettacoli ed eventi, come il riuscitissimo K Festival dello scorso fine settimana. Vengono in mente le parole di Gay de Maupassant (Viaggio in Sicilia, 1885): «Quando si contempla questo paesaggio semplice e suggestivo, si sente che lì, soltanto lì, si poteva costruire un tempio greco. I maestri decoratori che insegnarono l’arte all’umanità, dimostrarono, in Sicilia soprattutto, quale scienza profonda e raffinata essi avessero dell’effetto e della scena. Il tempio di Segesta sembra essere stato posto ai piedi della montagna da un uomo di genio che aveva avuto la rivelazione dell’unico punto in cui lo si doveva costruire: animando da solo l’immensità del paesaggio, che ne esce vivificato e divinamente bello».
Oggi le fiamme sono diventate una grande installazione artistica, racconto per i visitatori sospeso tra cronaca e mito: «Dopo la tristezza e le lacrime per l’incendio dello scorso anno non potevamo stare a guardare, perché l’arte e la bellezza superano la devastazione – dice il direttore Biondo – da quella tragica esperienza siamo ripartiti pensando alla resilienza e alla cura».
Già, la cura. Chi si prende cura di tutto questo? Cosa si fa per evitare che la devastazione si ripeta? Il Parco rinato è ancora indifeso. E resta sullo sfondo una domanda, che si arrovella da un anno nella testa del direttore e di tanti siciliani: «Ma perché? Perché tutto questo?». È il vero mistero, cosa abbia spinto la mano di qualcuno a creare tutta questa devastazione. Un mistero irrisolto, come quello degli Elimi, la popolazione di cui abbiamo poche e frammentarie notizie, che venne a colonizzare questa parte della Sicilia e alla quale dobbiamo questo tempio.
Misteri destinati a rimanere tali, soprattutto quelli su chi arma la mano degli incendiari in Sicilia, che con il caldo afoso di luglio sono tornati a prendersi la scena. Ventitré incendi in ventiquattro ore, nella sola domenica 21 Luglio. E le solite scene, che ormai non fanno più notizia: vigili del fuoco, canadair, volontari della protezione civile, gli appelli dei Sindaci, i villeggianti evacuati, le case lambite dalle fiamme, l’invito alla delazione: «Se vedete qualcuno sospetto intento ad accendere fuochi fate una foto e trasmettetela in privato», è il messaggio del primo cittadino di Menfi, in provincia di Agrigento, l’ultima città assediata dal fuoco che divora campi e sterpaglie, e contrade e vegetazione.
Intorno, le promesse dell’anno scorso sembrano rimaste vane: non c’è la centrale unica operativa per coordinare la campagna antincendio, il personale in divisa del Corpo forestale dell’assessorato al Territorio è lo stesso di prima, solo più vecchio. L’età media è sessanta anni, e il trenta per cento per motivi di salute è dispensato dalle operazioni di spegnimento. E la siccità complica le cose, perché manca l’acqua per spegnere gli incendi e l’acqua marina è altamente corrosiva per le autobotti. Ci sono inoltre seicento veicoli da sostituire. I canadair, che prima si rifornivano in laghi e dighe, per gli incendi dell’entroterra, adesso devono arrivare fino alla costa, perdendo ore preziose.
Segesta come lo Zingaro, o Vendicari dall’altra parte, le Madonie come i Nebrodi, sembrano corpi deboli esposti a un nemico invisibile e imprevedibile, pronto a scagliare nuovi colpi. Sembra la condanna proprio del mito di Prometeo: purtroppo, in Sicilia, per capire quanta bellezza fragile ci sia da difendere, occorre il fuoco.