27 luglio 1984. Qualche chilometro più a sud di Hengchun, la città più meridionale di Taiwan, ci si trova praticamente sulla punta dell’isola. Affacciati sul Pacifico, nel punto di intersezione tra mar Cinese orientale e mar Cinese meridionale. È qui che quel giorno entra in funzione la centrale nucleare di Maanshan, la terza di Taiwan. In quel momento la Cina continentale non ne ha nemmeno una di produzione propria. Il reattore di Qinshan si accenderà solo nel dicembre del 1991.
Taiwan è d’altronde una delle tigri asiatiche e la Repubblica Popolare di Deng Xiaoping è ancora agli albori dei decenni della sfrenata crescita della stagione di riforma e apertura. L’avvio dei reattori di Maanshan è salutato dall’allora governo taiwanese come un simbolo di avanzamento tecnologico e un altro passo verso la messa in sicurezza del proprio approvvigionamento energetico.
27 luglio 2024. Quarant’anni esatti dopo, alle dieci in punto di un torrido sabato sera post tifone, i dipendenti della Taipower spengono il reattore numero uno della centrale di Maanshan. Ora, a Taiwan, resta per qualche mese solo un altro reattore ancora attivo prima di diventare completamente nuclear free. In Cina continentale, nel frattempo, i reattori sono diventati cinquantacinque.
In questi quarant’anni è cambiato tutto, come spiega bene la vicenda della centrale di Maanshan. La Commissione di sicurezza nucleare ha approvato il suo decommissionamento, immediatamente avviato da domenica 28 luglio. Nei prossimi mesi si passerà alla rimozione dei reattori e verrà completato un rapporto di impatto ambientale. A nulla sono servite le proteste di impiegati, comunità locale e parte della politica.
Venerdì 26, il giorno prima dello spegnimento del reattore, i dipendenti della centrale insieme a un gruppo di residenti locali si sono ritrovati per una manifestazione pacifica. Il tema è sentito anche perché la centrale è sempre stata una fonte di reddito (anche indotto) in una contea come quella di Pingtung dove l’attività economica è ben meno sviluppata rispetto ad altre zone dell’isola.
Maanshan è composta da due unità, ciascuna con una capacità installata di novecentocinquantunomila kilowatt, che contribuiscono a circa quindici miliardi di kilowattora di elettricità l’anno. Con il ritiro del primo reattore, la quota di nucleare nel mix energetico taiwanese scende dal 6,3 per cento al 2,8 per cento. Taipower prevede di sostituire l’energia generata dal reattore appena spento con la centrale a gas di Fengde, ma c’è chi è scettico.
In questi mesi, Taiwan ha avuto ancora diversi episodi di riserva operativa che hanno fatto precipitare la percentuale di riserva in territorio di “allarme arancione”. Per tre volte, solo nel mese di luglio, l’unità cinque di Dalin, un impianto a gas vecchio di mezzo secolo e tecnicamente in disuso, è stata riattivata per motivi di emergenza. Ma quando l’impianto si romperà, non sarà possibile ripararlo, visto che i pezzi di ricambio non sono più disponibili per quel modello. «Nel 2024, in una notte su tre le capacità di riserva sono finite sotto il margine del dieci per cento», ha dichiarato ai media locali Liang Chui-yuan della National central university.
Non è finita, visto che il 17 maggio 2025 è in programma anche lo spegnimento dell’unico altro reattore ancora attivo a Taiwan, sempre nella centrale di Maanshan. A spingere l’acceleratore è il Partito progressista democratico (Dpp) del presidente Lai Ching-te, al potere dal 2016. Già dalla campagna elettorale per le presidenziali di otto anni fa, il Dpp ha cavalcato le proteste anti atomo degli anni precedenti, scaturite dall’incidente causato dal terremoto e maremoto del Tohoku nella centrale di Fukushima in Giappone. Vista la vicinanza con l’arcipelago nipponico, l’opinione pubblica rimase molto colpita anche per le similitudini geologiche e la forte esposizione ai terremoti.
Nonostante un referendum del 2018 abbia visto vincere un sì al mantenimento dell’atomo nel mix energetico taiwanese, l’amministrazione dell’ex presidente Tsai Ing-wen ha avviato la disattivazione di due delle tre centrali nucleari operative. Un ulteriore referendum del 2021, invece, ha confermato la decisione di non completare la costruzione dell’impianto di Lungmen, mai terminato per la scoperta di alcuni difetti durante i lavori.
L’opposizione del Kuomintang (Kmt) e del Taiwan People’s Party (Tpp), che unita ha la maggioranza nello yuan legislativo (il parlamento unicamerale), promette battaglia e prevede di passare una legge per la sicurezza nucleare per stoppare lo spegnimento dell’unico reattore ancora attivo e avviare la costruzione di nuovi. Ma le norme sembrano rendere impossibile quantomeno la prima impresa, visto che le leggi per bloccare lo spegnimento e prolungare la vita dei reattori oltre i quarant’anni devono essere approvate con almeno cinque anni di anticipo rispetto alla scadenza delle licenze operative.
Il premier Cho Jung-tai ha affermato che la questione nucleare dovrebbe essere suddivisa in energia nucleare tradizionale e nuova: «L’energia nucleare tradizionale non è in grado di risolvere i problemi, ma la nuova tecnologia nucleare potrebbe fare un passo avanti entro il 2030». Ma il problema è immediato. In molti temono che con l’addio all’energia nucleare aumenteranno le emissioni di carbonio e salirà il rischio di instabilità energetica con blackout sempre più frequenti e la necessità di aumentare ulteriormente l’approvvigionamento dall’esterno.
C’è anche chi teme ripercussioni sull’operatività dell’immensa industria dei microchip, che rappresenta una percentuale sostanziale del prodotto interno lordo di Taipei. La sicurezza energetica è essenziale per i tanti impianti di fabbricazione e assemblaggio della Tsmc, primo colosso mondiale del comparto, considerato il principale biglietto da visita dell’innovazione e capacità produttiva taiwanese.
A Taiwan, peraltro, l’energia non è solo un tema legato all’ambiente e al clima, ma anche alla sicurezza. Durante le grandi esercitazioni militari dell’agosto 2022 messe in atto dalla Cina come risposta alla visita di Nancy Pelosi a Taipei è stato simulato per la prima volta un blocco navale. L’episodio ha aumentato i timori sulla durata delle riserve energetiche. La convinzione diffusa tra gli analisti taiwanesi è che un ipotetico blocco reale con una durata superiore alle due settimane potrebbe già mettere in ginocchio l’approvvigionamento energetico.
Non a caso, l’argomento è stato al centro del dibattito della campagna elettorale per le presidenziali dello scorso gennaio. Entrambi i candidati dell’opposizione sostenevano con convinzione la necessità del ritorno al nucleare. Lai, poi vittorioso e insediatosi il 20 maggio, insiste che ampliare la quota delle rinnovabili e attrarre investimenti stranieri basta per rafforzare la sicurezza energetica. In tal senso, il Dpp sta insistendo con sempre maggiore vigore sull’eolico. Pochi giorni dopo il voto, infatti, sono stati approvati nuovi progetti che prevedono l’installazione di settantuno turbine in un nuovo parco eolico offshore galleggiante al largo delle coste della contea di Hsinchu, vale a dire la capitale mondiale della fabbricazione di microchip.
Secondo l’opposizione, non basta. A dare una spinta alle richieste di cambiare le politiche del governo sul nucleare è arrivata la dichiarazione di Jensen Huang, l’amministratore delegato del colosso Nvidia, che durante una recente visita a Taiwan ha detto che le restrizioni energetiche rappresentano un potenziale ostacolo al suo desiderio di costruire nuovi centri di produzione di supercomputer sull’isola, visto che le industrie di semiconduttori e intelligenza artificiale consumano una grande quantità di energia.
Ampiamente prevedibile che dell’argomento se ne parlerà sempre di più. Proprio in questi giorni, è uscito un teaser da diciassette minuti di Zero Day, la prima serie tv taiwanese che racconta esplicitamente un possibile scenario militare sullo Stretto. Uno scenario che inizia con un ipotetico blocco navale. E, qualora ciò si verificasse davvero, con un molto meno ipotetico esaurimento delle riserve energetiche.