Non si pretende che il medio dirigente di sinistra – cioè l’omologo da centro sociale del piazzista di materassi in lattice c/o Publitalia – abbia anche soltanto guardato i titoli dell’immensa letteratura, effettivamente noiosissima, dedicata da un secolo e passa in qua all’identificazione tecnica del pregiudizio antisemita.
Se lo avesse fatto – e pur restando, appunto, ai titoli, dunque anche senza avventurarsi nel territorio sconosciuto extra-Wikipedia e ultra-Instagram – avrebbe appreso che l’elemento distintivo di quel pregiudizio, che ne consente ovunque e nei secoli l’accertamento inequivocabile, è la cosiddetta dissociazione su base fantasmatica dell’ebreo dalla propria umanità. Detta più semplice: la costruzione di un’identità posticcia dell’ebreo, e la riduzione di quella realtà spettrale a centro di imputazione di responsabilità ineluttabilmente maligne.
In questo procedimento di confezione di quell’identità fungibilmente posticcia (può essere la mancanza di agio economico o l’opposto, l’opulenza; può essere la separatezza sociale o l’opposto, la temibile integrazione che corrompe le purezze dell’ordinamento; può essere l’apolidia cospiratoria o l’opposto, la pretesa di radicamento e di costituzione statuale), un ruolo decisivo è svolto dalla giustificazione che dissocia l’umanità dell’ebreo – cui sarebbe ingiusto addebitare alcunché, e contro cui sarebbe ingiusta qualsiasi violenza discriminatoria – dalle fattezze e dalle caratteristiche di quel fantasma, di volta in volta il deicida, la sanguisuga usuraia, eccetera. Per questo, banalmente, il nazismo diceva bensì che l’ebreo era un sotto-uomo, ma doveva giustificare lo sterminio degli ebrei con il ricorso a quelle diverse imputazioni propagandistiche.
Ho fatto questo pippotto partendo volutamente da quella figura, il medio dirigente progressista. Perché? Perché non solo gli spensierati rappresentanti quell’area, ma anche alcuni di quelli che insistono – e bisognerà sempre capire perché – a considerarli nella posizione di adulti nella stanza, non sono neppure sfiorati dal sospetto di stare dai piedi sino al collo nella pozza antisemita che pensano di guardare da lontano. Non sanno di partecipare – ma proprio direttamente, neppure in semplice e compiacente sottovalutazione – alla profilazione aggiornata del fantasma ebraico, l’operazione con cui all’umanità dell’ebreo è concesso di sopravvivere, di non essere aggredita, discriminata, a patto che faccia ciò che era richiesto all’ebreo prima dell’aggiornamento, senza peraltro garanzia di sopravvivere: allora era ammettere che aveva ucciso Gesù Cristo, che tramava per il dominio del mondo, che aveva predilezioni pedofile; ora è ammettere di appartenere alla «razza che da perseguitata si è fatta persecutrice», alla stirpe che da vittima del genocidio si è fatta autrice del genocidio, al popolo che ha impiantato in terra altrui il regime della pulizia etnica.
E soprattutto: capire, anzi condividere, che cacciare gli ebrei dalle università, strappare i volantini con le immagini degli ostaggi, manifestare per la liberazione della Palestina dal fiume al mare, gridare «fuori i sionisti da Roma», dire che Israele «ha perso il diritto di essere uno Stato, semmai lo ha avuto», aggredire i vecchi e i bambini fuori dalle scuole ebraiche dicendogli «assassini», ecco, magari tutto questo non è sempre educatissimo, ma è «critica alle politiche di Israele», accidenti, non è antisemitismo.
Non lo sanno, non lo capiscono, sono così ignoranti da non averne, appunto, nemmeno il sospetto: ma il «fascismo di Itamar Ben-Gvir» è «la questione ebraica» post 7 ottobre. E questa verità, per loro, semmai qualcuno gliela rinfaccia, è una specie di sbalorditiva bestemmia.