Né la dissipazione del rapporto con la realtà, né la morsa elettorale del deep State democratico che indugia sui contesti entro cui giudicare gli inni universitari allo sterminio degli ebrei, impedivano a Joe Biden di rispondere così, con una contrattura che diceva tutto, a chi gli domandava cosa avesse da dire al regime delle impiccagioni che, l’aprile scorso, minacciava di attaccare Israele: «Don’t». Né la turba antisemita alla caccia degli ebrei per le strade di Londra, né le compiacenze pro Hamas della fogna corbyniana, né il riscaldamento di David Lammy che si preparava, da imminente ministro degli Esteri, a riaprire il rubinetto dei piccioli in favore dell’Unrwa, impedivano a Keir Starmer di riaffermare, su carta intestata del Labour, il dovere britannico «di difendere la sicurezza di Israele».
L’uno e l’altro, Biden e Starmer, non erano meno preoccupati dei loro ammutoliti omologhi continentali per il pericolo di “escalation”, ma non trascuravano di ricordare che quel rischio c’era perché a provocarlo era il regime genocidiario di Teheran. E, soprattutto, con le loro parole segnavano la differenza irriducibile tra chi teme la guerra e vuole scongiurarla dopo aver chiarito che le parti in guerra non sono le stesse, che le forze del bene stanno da una parte e le forze del male dall’altra, e che bisogna difendere le forze del bene aggredite dalle forze del male, e chi invece si abbandona a vagheggiamenti di pace perché è contro «tutte le guerre». Talmente contro che se il regime delle impiccagioni si prepara a lanciare trecentocinquanta tra missili, razzi e droni sui civili israeliani c’è tempo per tante, tante, tante parole di pace ma non per dire la parolina semplice pronunciata da quel vecchio presidente: quel «don’t» che non c’è stato verso di ascoltare da altri e, per stare da noi, dai plenipotenziari democratici della Repubblica democratica fondata sulla Costituzione democratica fondata sull’antifascismo.
Dopo quattro mesi quella politica disperata per il pericolo dell’escalation si è ripresa dall’assopimento che le ha precluso la vista sulla Galilea incenerita da seimila razzi e spopolata di sessantamila profughi israeliani, mentre il drone iraniano piombato nel centro di Tel Aviv era insucettibile delle deplorazioni arcobalen-pacifiste perché faceva un morto troppo trascurabile a confronto del genocidio e della pulizia etnica di matrice sionista. Anzi, a ben guardare, pure quell’ordigno era gioco forza metterlo sul conto delle responsabilità israeliane, perché anche quello mica viene dal nulla.
Non so se, quando queste righe saranno online, l’Iran avrà già attaccato. So che, se lo avrà fatto, si griderà all’escalation non perché l’Iran avrà attaccato, ma perché Israele irresponsabilmente potrebbe difendersi. Diranno «don’t»: a Israele.