L’atmosfera è elettrica intorno ai grandi alberghi del Magnificent Mile e del Loop di Chicago che ospitano i colorati delegati democratici arrivati da tutti e cinquanta gli Stati americani, più il Distretto di Columbia e i territori d’Oltremare (Portorico, Guam, Samoa, Isole Vergini, Isole Marianne). I democratici pensano, sperano, di vincere le elezioni del 5 novembre, definite come sempre, ma mai come questa volta, le più importanti della storia degli Stati Uniti.
Niente richiama l’anima americana più di Chi-town, la windy city che rigenera il proverbiale sogno americano e tempra i suoi abitanti grazie al vento sferzante che parte dall’Artico, attraversa la pianura canadese, e senza ostacoli atterra sulla città bagnata dal Lago Michigan, il cui bacino è grande quanto mezzo Adriatico.
Chicago è la più americana delle città americane, il centro del cuore del paese, la capitale finanziaria e culturale del gigantesco entroterra continentale, con la Borsa del Commercio e la fabbrica di economisti della Booth School of Business. «I am an American – Chicago born», «Sono americano, nato a Chicago», così comincia, e non c’è bisogno di aggiungere altro, uno dei capolavori della letteratura nordamericana, “Le avventure di Augie March”, scritto da Saul Bellow, il più rilevante degli intellettuali di Chicago del Novecento.
A Chicago è nata l’architettura moderna (no, non è nata a New York), dopo il grande incendio del 1871, con i più grandi architetti dell’epoca attratti dall’opportunità di partecipare alla ricostruzione della città. Uno degli architetti era Frank Lloyd Wright, ma il più importante è stato il tedesco Ludwig Mies van der Rohe. Più di recente è arrivato Renzo Piano a progettare l’ala moderna dello splendido Art Institute of Chicago che ospita il più americano dei quadri del Ventesimo secolo, l’American Gothic di Grant Wood, una satira del 1930 dell’America rurale e di frontiera, ma anche il simbolo della spirito pionieristico americano e un’immortale icona pop.
Chicago è la doppia torre di Marina City a forma di pannocchia, emblema del Midwest rurale finito sulla copertina dell’album “Yankee Hotel Foxtrot” dei favolosi Wilco di Chicago, la band di culto del post rock, un genere meglio conosciuto, appunto, come “Americana”.
Chicago è anche le più moderne Sears Tower e l’Hancock Center, grattacieli entrambi progettati da Skidmore, Owings and Merrill, il più antico studio d’architettura d’America.
Chicago è stata la casa per venticinque anni dell’Oprah Winfrey Show. Chicago è i Bulls di Michael Jordan, la cui steak house sul Miglio Magnifico serve porzioni di carne e hamburger col bacon proporzionati alla stazza del proprietario, oltre che cocktail come l’Air Espresso Martini spesso definito da barman sapienti con la famosa posa in volo di MJ.
Chicago è il potere della più corrotta macchina politica degli Stati Uniti, ma anche il radicalismo civile del militante e teorico Saul Alinksy, il maestro sia di Obama sia Hillary Clinton. Chicago è la protesta del Sessantotto, la fondazione degli eversivi Weather Underground e la fine dell’illusione con il processo ai famigerati “Chicago seven” (cui Aaron Sorkin ha dedicato un film).
Chicago è il Millenium Park con il fagiolo di Anish Kapoor e altre opere di land art contemporanea. Chicago è il blues urbano nero e bianco, il jazz d’avanguardia dell’Art Ensemble of Chicago, il musical “Chicago”, la band “Chicago”, il disco “Ilinoise” di Sufjan Stevens che da fantastico album pop di qualche anno fa ora è diventato un musical in scena a Broadway.
Chicago è il jazz di Herbie Hancock, la disco funk degli Earth Wind and Fire, il soul politico di Sam Cooke e di Mavis Staples. Chicago è la canzone “Sweet Home Chicago”, resa indimenticabile dai Blues Brothers, in uno dei tanti film e serie tv ambientati in città. Tra i film gli “Intoccabili” di Brian De Palma su Al Capone, altro imponente protagonista della città ventosa, ma anche alcuni “Batman”. Tra le serie: ER, The Good Wife, il sequel The Good Fight e il più recente The Bear.
Joe Biden ha scelto Chicago per molte ragioni, ma anche per questa sua perfetta entelechia americana, e qui Kamala Harris raccoglie il testimone dal presidente e prova a realizzare il compito di salvare definitivamente l’America dal pericolo, accolta dall’entusiasmo e dall’energia dei delegati che arrivano da tutti gli angoli del paese.
Senonché David Axelrod, l’architetto della formidabile traiettoria politica di Obama, alla fine della prima giornata della convention di Chicago lunedì notte, ha detto senza mezzi termini che va bene l’entusiasmo, che va bene l’energia, ma bisogna anche stare molto attenti perché la partita con Donald Trump è ancora aperta, apertissima, e anzi tende a favore di Trump negli Stati tradizionalmente spaccati a metà tra conservatori e liberal. Kamala Harris, insomma, non ha ancora vinto. Anzi se si dovesse votare oggi, ha spiegato Axelrod, vincerebbe Trump. Ah, Axelrod è di Chicago.