All’inizio degli anni Sessanta, l’Italia democratica pareva non avere dubbi sui fondamenti della propria identità. O, almeno, le sue istituzioni erano convinte che una memoria eroica del passato rappresentasse la migliore garanzia di un futuro luminoso per il nuovo paese. Dal Risorgimento alla Resistenza (il secondo Risorgimento), erano state le armi e il sangue dei suoi figli migliori a conquistare e garantire la libertà della nazione, e sarebbero stati armi e sangue a proteggerla in futuro. Le armi di un esercito (che nel frattempo continuava a crescere) e il sangue dei cittadini stessi, che generazione dopo generazione sarebbero stati chiamati a vestire l’uniforme, raccogliendo il testimone dei padri, pronti a battersi su nuovi campi di battaglia.
O forse no. A dispetto delle retoriche istituzionali, degli appelli commossi dei Gronchi, dei Saragat, dei Taviani e dei De Gasperi, delle memorie dei veterani e dei manifesti ideali e nostalgici delle associazioni di reduci, anche in Italia era cominciato il processo di disgregazione della tradizionale cultura della guerra. In prima linea a contestarla furono coloro che si professavano non violenti, pacifisti, disubbidienti di diversa colorazione ideologica: insomma, chi vedeva all’obbligo costituzionale del servizio militare una vessazione per motivi diversi, ed era determinato a non piegarsi alla «tassa del sangue» di rivoluzionaria memoria, a costo di darsi alla latitanza o di fuggire all’estero. In tutto, appena una manciata di casi ma sufficienti per porre all’attenzione dell’opinione pubblica la questione del dissenso come diritto. E anche se non sarebbe mai divenuto l’esigenza di una massa, il rifiuto delle armi venne promosso rapidamente a bandiera per le sigle, i partiti, le confessioni, le chiese e i singoli intellettuali che costituivano la frammentata (e spesso litigiosa) galassia della non violenza.
Nel 1959, Capitini pubblicò “L’obbiezione di coscienza in Italia”, manifesto di fatto di un movimento che avrebbe inserito anche la penisola nella geografia della contestazione pacifista europea, e nel settembre del 1961 promosse la prima marcia per la pace da Perugia ad Assisi. Nonostante le preoccupazioni dei prefetti, che temevano chissà quali disordini, e gli strali lanciati da buona parte della Chiesa cattolica, fu una manifestazione imponente, festosa e colorata, a cui parteciparono forse ventimila persone, dagli intellettuali come Giovanni Arpino, Norberto Bobbio e Italo Calvino ai militanti giovanissimi, fino a molti anziani contadini che si accodarono. Il Movimento Nonviolento era definitivamente nato (sarebbe stato costituito ufficialmente l’anno dopo, con Capitini presidente) e l’invenzione della pace chiedeva ora il suo prezzo: disarmare la nazione e rinunciare per sempre e in ogni caso alla via della guerra.
L’idea avrebbe cominciato ben presto a fare proseliti. O, più semplicemente, il rifiuto radicale del tradizionale linguaggio del patriottismo di Capitini e dei suoi stava intercettando un mutamento generazionale sempre più ampio, in Italia come nel resto del continente. Il culto del cittadino-soldato disposto a impugnare le armi, a sacrificare la vita (e, nel caso, a toglierla) per il bene della comunità, sembrava sempre meno convincente a chi era cresciuto dopo il 1945. Gli europei (e gli italiani) della seconda metà del XX secolo erano nutriti dalle memorie familiari di una guerra fatta di città spazzate via dai bombardamenti, convivevano con l’orrore di un conflitto in cui i civili (oltre la metà dei forse sessanta milioni di decessi causati dalla violenza delle armi tra 1939 e 1945 nel globo) erano stati annientati a milioni nei campi di sterminio, ed erano schiacciati dalla convinzione che il prossimo conflitto sarebbe stato presumibilmente combattuto non da uomini in armi artefici del proprio destino, ma da macchine in grado di cancellare il mondo civilizzato in qualche istante, senza alcuna distinzione tra guerrieri e inermi.
Il disincanto sarebbe stato più virulento tra i vinti, umiliati dall’apocalisse della distruzione e della sconfitta, che tra i vincitori, che dopo il 1945 avevano festeggiato a loro modo la vittoria sul male, la libertà o il trionfo del popolo lavoratore, ma dovunque in Europa molti avrebbero cominciato a chiedersi che gloria ci potesse mai essere se nella battaglia chi indossava un’uniforme era in definitiva inutile, o paradossalmente più al sicuro delle donne e dei bambini che avrebbe dovuto proteggere: nella guerra moderna dei bombardieri strategici, dei missili e delle testate atomiche, il protagonista non sarebbe più stato l’eroe che si sacrificava con coraggio, ma la vittima che non aveva potuto scegliere.
Una disillusione marchiata dal terrore che nessuno prima aveva mai provato, nemmeno i più feroci critici sopravvissuti alle carneficine industriali della Grande guerra. L’incubo dell’Armageddon nucleare, che si sarebbe materializzato ripetutamente nel corso di una generazione (la prima volta con la crisi dei missili di Cuba del 1962, il «nodo venuto al pettine» della storia come l’avrebbe definito l’attivista comunista Rossana Rossanda), stava rapidamente privando la guerra di gran parte del fascino romantico e ideale che le restava: il codice d’onore del guerriero e la nobiltà del servizio per il paese, che per due secoli erano stati rivendicati con orgoglio dai cittadini in armi come un privilegio e come la spina dorsale degli stati nazione, si stavano riducendo a una grottesca menzogna agli occhi di molti.
Quando, nel novembre 1961, tredici aviatori della quarantaseiesima aerobrigata in missione per l’Onu vennero scambiati per mercenari e trucidati dalle milizie locali a Kindu, nel Congo Belga, a Roma si decise che sarebbero stati commemorati come eroi delle guerre del passato, un suggello simbolico delle celebrazioni per il centenario dell’unificazione che si stavano chiudendo. Ma l’anno successivo, quando infine i corpi vennero recuperati e riportati in Italia e si progettò un sacrario per dare loro sepoltura solenne, il progetto naufragò.
Contestato da destra e da sinistra, con l’eccidio trasformato nelle piazze e sui quotidiani in un simbolo degli errori dell’Europa colonialista, il governo Fanfani ripiegò goffamente su una cerimonia di basso profilo. Le impacciate parole in Parlamento del presidente del Consiglio, sbeffeggiato mentre cercava di presentare le vittime come martiri risorgimentali, e le immagini imbarazzanti della discreta cerimonia di inumazione delle salme, che vennero abbandonate in un deposito provvisorio per settimane perché i lavori del sacrario erano in ritardo, testimoniano efficacemente come i rituali della sacralità patriottica stessero rapidamente perdendo la loro capacità di mobilitare consenso, e persino emozioni: gli aviatori di Kindu erano i primi (anche se non gli ultimi) soldati sotto la bandiera ONU che il paese avrebbe pianto, ma il loro ritorno a casa si consumò nell’indifferenza.
Decisamente, non si poteva pretendere che i nuovi italiani pensassero ancora a servir la patria in armi, alla bandiera e alla necessità di prepararsi a combattere per la sua grandezza: un giovane deputato di nome Giorgio Napolitano, invitato a discutere in televisione, in quello stesso 1961, di nuove generazioni e patria, avrebbe ricordato che i tempi erano cambiati, che i ventenni chiedevano pace, lavoro e benessere e non giuramenti, cannoni, caserme e inni. Al netto delle parole d’ordine di partito, ci sono pochi dubbi che il futuro presidente della Repubblica stesse dipingendo molto bene l’Italia del miracolo economico.
Del resto, dovunque in Europa la società dei consumatori stava sostituendo quella dei cittadini. La ricerca della felicità stava smantellando la vecchia nazione in armi, al proprio paese si chiedevano pensioni e frigoriferi a basso costo, non prestigio e onore, spese militari o mesi a marciare e sparare al poligono per prepararsi a custodire le frontiere. Nella Germania Occidentale, il successo economico galoppante avrebbe contribuito ancora di più, se possibile, a disamorare i giovani tedeschi di tutti quelli che venivano ritenuti i vecchi orpelli da nazionalismo (e a volte da nazionalsocialismo): bandiere, riscatto, potenza, cannoni. Dal canto loro, gli italiani, lo avrebbe raccontato un meravigliato Giorgio Bocca nella sua Scoperta dell’Italia, erano tutti ipnotizzati dal benessere, con poca o nessuna voglia di sentirsi rammentare i doveri sacri e gli immutabili destini.
Il vento era veramente cambiato. Da quel momento in avanti, la guerra avrebbe cessato di essere un’avventura dolorosa ma necessaria, bella ma scomoda, e sarebbe diventata sempre di più e solamente un incubatore di mali e di vittime innocenti. Il tempo in cui prendere le armi e offrire la propria vita era il gesto supremo del bravo figlio della nazione, in cui la morte in battaglia sarebbe stata pianta ma anche celebrata da una comunità riconoscente, in cui sacrificarsi voleva dire essere ricordati in eterno con onore, stava svanendo. Simulacri di vittime torturate, impiccate, abbandonate morenti e senza conforto, come la donna dalle linee scabre riversa sull’acqua del Monumento alla partigiana inaugurato nel 1961 a Venezia, avrebbero sostituito le statue pietose e orgogliose e i sacrari trionfali che quarant’anni prima erano stati eretti per celebrare nei secoli la memoria gloriosa dei caduti sui campi di battaglia. Vittime e non eroi. La morte non poteva più essere raccontata come una scelta coraggiosa e generosa, ma era solo una tragedia senza consolazione.
L’Ara pacis mundi, l’altare della pace del mondo, inaugurato pochi anni dopo la fine delle ostilità a Medea, avrebbe raccontato questo alle generazioni successive. Non esistevano più prodi da celebrare, coraggiosi combattenti pronti a uccidere e perire indifferentemente con il sorriso sulle labbra e una bandiera sul petto, ma solo poveri morti, le cui vite erano state distrutte senza un senso apparente: vittime da affratellare, senza vinti né vincitori, in una nuova Europa senza odii e senza frontiere.
Odium parit mortem. Vitam progignit amor, l’odio genera la morte, l’amore la vita, recita ancora oggi la grande scritta che custodisce il senso di questo antisacrario dei tempi moderni. In un’Italia ancora sinceramente cattolica, ci voleva l’influenza morale della Chiesa di Roma e del suo linguaggio sacro per dare il colpo di grazia alla tradizione della guerra e della patria. Nel 1963 papa Giovanni XXIII avrebbe pubblicato l’enciclica Pacem in terris: «Riesce quasi impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia», recitava la versione italiana dell’enciclica (in latino, la condanna era ancora più aspra).
Forse non si può affermare che il Vaticano sia passato armi e bagagli con i pacifisti, ma poco ci mancava: dopo duemila anni di violenza giustificata in nome di Dio e alcuni decenni di conforto spirituale sui campi di battaglia, il papato sceglieva la strada di una condanna della guerra (mai più santa e quasi sempre nemmeno giusta) e lo faceva per volontà di un ex cappellano e sergente del Regio esercito. Redipuglia, il ciclopico tempio laico dedicato alla magnificenza della guerra, avrebbe dovuto tramandare ai posteri il fascino dell’immolarsi in nome di una patria più grande. Medea, il suo specchio, ad appena pochi chilometri di distanza, parlava al cuore di un’Europa emersa dalle macerie e devastata dal dolore, che nella consolazione del sacrificio non credeva più molto.
Man mano che la generazione di chi aveva combattuto scompariva, i figli e i nipoti ci avrebbero creduto sempre meno. La Germania Occidentale aveva stabilito nella sua costituzione democratica che l’obiezione di coscienza sarebbe stata sempre un diritto inalienabile del cittadino, ma quando nel 1955 la Bundeswehr era stata ricostituita, accuratamente denazificata nei simboli e nelle insegne (anche se non nei quadri ufficiali) i governi centristi della Cdu e la presidenza della Repubblica si erano sempre riferiti alla leva obbligatoria come al fondamento morale della cittadinanza, e ai coscritti come i figli migliori della nuova nazione.
Eppure, a partire dalla metà degli anni Sessanta gli obiettori di coscienza divennero una valanga e nel 1991, quando il sogno della Wiedervereinigung, la riunificazione delle due Germanie, era appena divenuto una realtà, centocinquantamila ragazzi tedeschi (più o meno un terzo degli effettivi) decisero che non volevano portare armi e uniformi. In Italia, fu il 1977 il momento in cui suonare le campane a morto per l’antico legame tra cittadini, armi e patria. In quello stesso anno, l’obiezione di coscienza divenne un diritto e una vera possibilità, e il 4 novembre venne soppresso come giorno festivo: era solo una coincidenza, ma simbolicamente segnò un punto di non ritorno. «Che deve fare uno se vuole rinunciare al rinvio e partire subito militare», aveva chiesto nell’estate 1966 il giovanissimo Matteo Carati nel primo atto de “La meglio gioventù”: «Se deve fa’ guardà urgentemente al manicomio», aveva risposto un paffuto fante di sentinella, incarnazione del buon senso romano.
I ventenni dell’epoca avrebbero concordato pressoché all’unanimità: la naja era un dovere da evitare il più a lungo possibile e, con un pizzico di fortuna, per sempre. Due decenni più tardi, mentre la Francia repubblicana che l’aveva inventata si accingeva a sospendere per prima la coscrizione obbligatoria, gli italiani che dichiaravano di non voler servire il paese erano più di cinquantamila, sarebbero stati centoventicinquemila alla svolta del millennio.
Pochi anni ancora e, nell’estate 2004, un Parlamento semideserto dichiarava finita la storia della leva. Mentre i talebani afghani erano in piena insurrezione, in Iraq si preparava il processo all’ex dittatore Saddam Hussein e il governo Berlusconi II reggeva le sorti del paese, l’istituto più nazionale di tutti, la vera scuola che per centocinquanta anni aveva fatto gli italiani, veniva cancellato nell’indifferenza generale (i giornali ne diedero a malapena notizia nelle pagine interne), con il consenso unanime di tutti i partiti politici, Lega e destra in prima linea, e con la sola opposizione dei comunisti. In quel momento, novemila uomini dell’esercito italiano erano sparpagliati ai quattro angoli del mondo, impegnati a combattere in missioni internazionali dall’Iraq meridionale all’Afghanistan alla Bosnia, ma la maggioranza degli italiani con i nuovi conflitti globali non voleva avere più niente a che fare. Il ministro della Difesa Martino annunciò trionfalmente che era stato approvato un «provvedimento epocale». Non vi era dubbio. L’Italia diventava una non war community, un paese culturalmente e psicologicamente convinto di aver cancellato la guerra semplicemente perché la maggior parte dei suoi abitanti si era stancata di imbracciare le armi: non le conosceva, non le sapeva usare, e di norma ignorava l’esistenza e la consistenza del proprio apparato militare.
La Repubblica avrebbe continuato a investire risorse in uomini e armamenti, avrebbe partecipato alle sue missioni di pace in ottemperanza agli obblighi internazionali di una media potenza, parte della NATO e dell’Unione Europea, ma gli italiani avevano deciso di non volerlo né vedere né sapere. Non erano più cittadini e soldati. La guerra riguardava qualcun altro.
Quasi quarant’anni più tardi un intellettuale, tra i più rispettati e famosi, si sarebbe voltato indietro, contemplando i decenni in cui i suoi concittadini avevano sperato davvero in una pace duratura, in uno stato di quiete che rendesse superflui se non tutti gli eserciti, almeno la pianificazione della violenza organizzata. La distensione, i trattati per il controllo degli armamenti, le riforme in Russia, la caduta del muro di Berlino, la fine della guerra fredda. Erano state tappe esaltanti di un cammino apparentemente scontato verso un’epoca di stabilità che avrebbe reso superflui i giganteschi (e onerosi) arsenali accumulati dagli anni Quaranta. Poi erano arrivati i nuovi conflitti. E i disinganni. La prima campagna del Golfo (1990-1991), la devastante disintegrazione della Jugoslavia, il rumore dei cannoni alla periferia di Gorizia, le immagini dell’assedio di Sarajevo (1992-1996), i massacri di civili in Bosnia e Kosovo. Non erano più i disordini estranei e lontani di terre esotiche e arretrate.
La violenza bussava alle porte del confortevole mondo post eroico: a pochi chilometri dalla frontiera italiana, austriaca, tedesca, si moriva di nuovo a migliaia. Era stata una bella, grande illusione quella della pace incondizionata, avrebbe scritto quell’uomo ormai anziano che di nome faceva Norberto Bobbio, ma bisognava rassegnarsi. Era durata poco. La guerra era tornata nel cuore d’Europa. Pochi lo capirono all’epoca. I più si sarebbero risvegliati dal sogno solo quel giorno di febbraio 2022.
Tratto da “Il ritorno della guerra” (il Mulino) di Marco Mondini, pp.408, 23,75 €