M’è dolceQuando perdere la rotta diventa un modo per conoscere sé stessi

In “Apologia del Naufragio” (Il Saggiatore), Ferruccio Parazzoli descrive il naufragare non come una fine irreparabile ma un’esperienza tramite cui l’uomo può trovare se stesso. Due sono gli spazi dentro cui l’autore ci fa immergere: lo Spazio Bianco, che spinge l’uomo a lasciare il suo porto sicuro per valicare ogni limite; lo Spazio Nero, la tentazione di abbandonare ogni ricerca e rimanere saldi sulla terraferma

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Per la durata di una settimana ho visto il mondo a metà. Non la metà del mondo, intendiamoci, che sarebbe stato qualcosa come visitare un intero emisfero, impresa del tutto impensabile, ma proprio, come dicevo, il mondo a metà. Ogni immagine risultava dimezzata, in una metà c’era la luce, nell’altra il buio, una metà era abitata da persone e cose, l’altra da un’imperscrutabile dimora di ombre. Tra luce e ombra vieni a trovarti esattamente nel mezzo come la punta del naso in mezzo alla faccia. Procedi, improvvisato Amleto, in equilibrio tra l’essere e il non essere.

La situazione, per quanto sorprendente, non è poi così strana né così improbabile. Basta un piccolo incidente, come quello a me capitato, per ritrovarsi a vivere facendo momentaneamente uso di un unico occhio. Nel mio caso il sinistro, ma credo non faccia differenza tra l’uno e l’altro. È chiaro che avere un solo occhio non comporta, ovviamente, vedere davvero il mondo a metà. Lo vedi per intero: anche tua moglie e i tuoi figli, il portiere e il panettiere, il cane e il gatto se ce li hai li vedi ancora tutti completi, non manca loro nulla, né testa né gambe, né il braccio destro né il sinistro, tuttavia la loro presenza, ma non solo la loro e non soltanto quella delle persone ma anche quella delle cose, è accompagnata dalla metà buia che si spalanca su un lato dell’immagine. È il mio Spazio Bianco, che mi circonda e che mi attende.

A dividere la scena è solo la punta del tuo naso, tu stai esattamente nel mezzo, un piede nella vita e un piede nel nulla di uno spazio sterminato. Provate per un istante a tapparvi un occhio con il palmo della mano e ditemi cosa provate. L’esercizio, se protratto a lungo, è sconcertante: le immagini del mondo, le più atroci come le più care, ci appaiono affiancate dalla metà buia, come immagini prive di profondità, composte di due sole dimensioni. Se cerchiamo di allungare la mano e di toccarle, sbagliamo la distanza, sono sempre un po’ più a destra o più a sinistra, più vicine o più lontane delle dita della nostra mano. Il mondo ci appare per quello che è: effimero, impalpabile, il buio apparente che lo accompagna è il monito dello Spazio Bianco, da cui ogni immagine esce per poi ritornare. Il buio che invade lo sguardo di chi, nelle distese ghiacciate del Polo, fissi il bianco dei ghiacci senza l’opportuna protezione.

Il ragazzo stava mostrando al gruppo un bastone bianco dalla punta arrotondata. Aveva accolto i partecipanti all’ingresso del percorso e ora dava istruzioni. «Tenete il bastone sempre a terra» disse. «Attenzione a non sollevarlo ad altezza d’uomo, potreste procurarvi dei danni». Fece vedere come usarlo. Mi chiesi se sarei riuscito a far quei pochi passi che immettevano nel buio. Il ragazzo stava per affidarci ad un cieco che ci aspettava proprio dietro la curva del cunicolo.

Il ragazzo che ci aveva presi in consegna se ne andò lasciandoci davanti a una porta semiaperta. Spalancai gli occhi nel tentativo di vedere qualcosa. Ormai il buio era quasi totale. Una voce proveniente dal fondo del corridoio disse «Sono Matteo, venite avanti, non abbiate paura». Istintivamente chiusi gli occhi e procedetti a tentoni. Quando li riaprii ero immerso nell’o- scurità più completa. «Avanti» disse ancora la voce. «Ci sono io a guidarvi».

Mi sembrava di nuotare nel nulla, nessun parametro di riferimento se non il palpito del mio cuore, un senso di soffocamento, come di una mano che mi stringesse alla gola.

Feci un passo avanti, esitante. Non riuscivo a capire in che direzione mi stessi muovendo. Mi ricordai del bastone che mi aveva dato il ragazzo di prima, e tastai il terreno. D’un tratto lo sentii urtare un oggetto solido. Allungai la mano e mi ritrovai a toccare qualcosa di morbido: un golf di lana, probabilmente. Istintiva mente lo strinsi tra le dita. Quel qualcosa era senza dubbio il petto di una donna.

«Scusa» dissi. «Non ti ho visto.» Risi per la battuta involontaria. Sperai che anche l’altra ridesse, che capisse che volevo soltanto scaricare un po’ di tensione.

«Non c’è problema» disse lei. «Anch’io non ti vedo.»

Mi accorsi di tenere ancora il suo golf tra le dita, ma il contatto era troppo piacevole, in quel buio, per decidermi a lasciarlo. Ero in una dimensione del tutto nuova, dove veniva spontaneo stabilire con gli altri un’immediata solidarietà.

In quel momento udii la voce di Matteo chiedere al gruppo in che posto, secondo noi, ci trovavamo.

«In un parco!» strillò una ragazzina con entusiasmo. «Siamo in un parco!»

«Giusto» disse Matteo. Aveva una voce potente, dal tono profondo. «Adesso andate in giro e ditemi che cosa trovate.»

«Un albero! Questo è un albero!» strillò la ragazzina. E subito dopo: «Una mucca! Questa è una mucca!». Mi chiesi come potesse muoversi nel buio così rapidamente.
Cercai la direzione da prendere dallo scalpiccio dei piedi. Dovemmo certamente passare attraverso una porta e un cinguettio di passeri ci accolse.

La ragazzina non aveva fatto grandi sforzi nell’indovinare. Eravamo in una stanza che riproduceva un parco. Sotto i piedi scricchiolava qualcosa: la ghiaia.

Mi fermai. Sentii le voci del gruppo commentare eccitati ogni oggetto che toccavano. Matteo li spronava e li sovrastava con la sua voce potente. «Allora, cos’è questo? Eh? Cos’è?» E la ragazzina berciava «È un cipresso, è alloro, è rosmarino!».

Sentii il desiderio prepotente di intimare a tutti di smetterla. Avanzai di qualche passo usando il bastone. Le voci si stavano allontanando, o così mi parve. Mi fermai. Riconobbi subito il mio nemico di un tempo: il panico. Era successo di notte. Il cuore batteva, martellava in testa, in gola, nella schiena, nei polsi, fino a farli dolere, era uno, due, mille cuori che pulsavano impazziti come se volessero uscire dal corpo. Accesi la luce.

Ma adesso non c’era nessuna luce da poter accendere. Solo la possibilità di gridare che mi conducessero in fretta fuori dall’incubo del buio.

È facile scambiare il Buio per lo Spazio Bianco che ci circonda.

Lucia non vede. Quell’ammasso di figure, colori cupi, volumi che affollano le tele le saranno per sempre preclusi. Deve vederli attraverso qualcuno che glieli descriva.

«Parete sinistra. Gesù nell’Orto degli Ulivi.» Non so se leggere la didascalia o no. «Enea Salmeggio detto il Talpino. 1609, olio su tela.» Proseguo. «Parete destra. La frusta di un aguzzino solleva il mento di un Cristo alla colonna.» Lucia segue attentamente, solleva il

capo verso le tele come se ci vedesse. La chiesa è grande, i quadri si moltiplicano nelle cappelle. Una specie di esplosione di tele nel transetto. «Compianto sul Cristo morto. Due angeli coprono il corpo col sudario». Esito. «Un terzo angelo guarda verso di noi» vorrei aggiungere, e passare oltre. Ma Lucia si ferma. «Come lo toccano? Dimmi come lo toccano gli angeli».

«Tengono sollevato il lenzuolo».

«Le dita. Cosa mi dici delle loro dita? Sfiorano solo usando i polpastrelli, oppure vi passano tutta la mano, anche il cavo del palmo? Toccami in quel modo. Sfiorami la camicetta come fosse quel lenzuolo. Noi ciechi non possiamo toccare solo con i polpastrelli, sentiremmo poco della superficie, non riusciremmo a immaginarla. Dobbiamo toccare con tutta la mano, e con ogni parte sensibile di noi».

Il transetto incrocia il corpo centrale della chiesa formando un ottagono di pilastri, un pozzo di luce vivida che scende giù dal tamburo della cupola. Due organi immensi troneggiano ai lati dell’altare. E quadri dappertutto, senza respiro. Ogni superficie è ricoperta di tele scure sulle quali spiccano i corpi nudi di Cristo o di Santi, rimbalzano da un pilastro all’altro come in una scatola di specchi. Mi coglie il capogiro. Ovunque il corpo umano ostentato, umiliato, ferito o compianto. Corpi innalzati e deposti dalla croce, flagellati e vilipesi. Santi dagli occhi lucidi di febbre e di desiderio. Sangue sulle piaghe offerte alla vista come rose in cui perdersi col naso, la bocca, la faccia. Volti contratti, estatici. Muscoli allungati languidamente, muscoli contratti. Labbra arse in un grido di supplica, di dolore, di piacere.

Lucia sembra accorgersi del mio turbamento. «Dimmi com’è la carne». «Bianca» dico scioccamente. Tutte quelle membra nude.
«Bianca come? Se tu potessi toccarla, quella carne, come la sentiresti?»
«Fredda. No, fredda no. Molle. Non so, non ti so dire…»
«Hai paura di dire. Ti sembra carne morta?» «Tutt’altro. Addormentata, piuttosto. Abbandonata.» La conduco per un certo numero di passi, che deve già conoscere a memoria, davanti a una formella della Via Crucis.

Cristo viene inchiodato alla croce. La sua schiena va verso l’esterno, è tutta in fuori rispetto alla composizione e basta spostarsi di pochi centimetri perché l’equilibrio delle linee cambi. Provo a descrivergliela. «Sembra bronzo».

Lucia alza il braccio, la sua mano sottile arriva agevolmente a toccare la superficie di quella schiena curvata che per poco sembra proiettarsi all’indietro. Con le nocche batte leggermente sulla superficie.

«Non è bronzo» sorride. «Tu lo sapevi già».

«Vengo qui spesso. Anche da sola. Tocco le cose attraverso le mie mani, mi aggiro anche nel buio. Hai mai sentito la voce del bronzo? È un suono capace di far rizzare i peli più piccoli» mi sussurra, e sorride ancora.

La chiesa è silenziosa. Lucia si lascia condurre.

«Dov’è il quadro con i ciechi che conducono altri ciechi? Che poi finiscono in una voragine, uno dietro l’altro. Dimmi, gli ultimi della fila sono ancora inconsapevoli?».

«Sì, inconsapevoli, hanno un’aria trasognata».

«Chissà in che bel posto andranno a finire tutti quanti».

Siamo accanto all’acquasantiera. Lei preme le mani sul bordo del bacile.

«Dimmi. Cosa c’è in questo bacile?» «Acqua, solo acqua fredda».
«Non si vede il fondo, vero?».
«No, non si vede».

«Un cieco non sbaglia mai».

Sposta le mani sul bordo della grande tazza. Le sue dita, lontane dal contatto con l’acqua, cominciano a esplorare la conca. Sotto le dita sente il bordo incurvarsi in un modo diverso. C’è qualcosa sopra.

«Toccare una parte per arrivare al tutto.»

Passa e ripassa la mano su quelle sagome curve, segue i contorcimenti del marmo fino a quando termina in una piccola testa appuntita. È un serpente scolpito sul bordo. Lucia gli infila un dito nella fessura della bocca, scopre al tatto la fila aguzza dei denti.

«Ce ne sono quattro. Quattro serpenti. Un cieco vede con tutti i sensi e ne possiede più di quelli conosciuti da chi crede di avere il dono della vista. Ogni senso è moltiplicato per l’anima, per l’intelletto, per l’intuito. Il tatto della mano diventa il tatto dell’anima. La vista degli occhi si allarga nella vista della mente. Ascolti con le orecchie, ma tutto il corpo diventa orecchio, un grande ricettacolo di suoni, ancora più grande del tuo corpo stesso. E davanti ai tuoi occhi che non vedono, scorrono nitide le immagini delle innumerevoli verità delle persone, anche le più inconfessabili, le più brutali. Il buio serve a vedere meglio».

Il Buio circondava per lei ogni immagine, ogni cosa che avesse corpo. Il Buio era per Lucia il suo Spazio Bianco. Per lei, cieca, le parole tracciate o stampate sulla pagina, nella Voce che per lei le fa rivivere, nuotano, più che per ogni altro, nello Spazio Bianco.

 

Tratto da “Apologia del Naufragio” (ilSaggiatore) di Ferruccio Parazzoli, pp.184, 17,00€

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