Il grande giorno, bramato da tutti, prima o poi arriva. Dopo l’analisi dei fenomeni delinquenziali e del periodo da affrontare in carcere, il percorso dedicato al sistema penitenziario norvegese arriva all’ultimo step, quello della libertà e di cosa comporta per chi la ottiene. «Ti devi preparare mentalmente, se non hai un tetto sopra la testa non puoi pensare di andare in un dormitorio e startene lì tranquillo», racconta una delle voci di Røverradio. «Qui dentro ti abitui a uno spazio limitato, una volta fuori devi affrontare un mondo infinito, con un sacco di possibilità, a volte rimani sconvolto dalle innovazioni tecnologiche. Quando sei dentro, anche se puo’ essere sconveniente, ti abitui ad una sorta di routine, sai cosa ci si aspetta da te e non devi pensare a cosa dovrai fare le settimane successive».
Quando il nostro ipotetico detenuto viene rilasciato dal carcere, alla sua uscita potrebbe incontrare Johan Lothe. Johan ha i capelli bianchi, ogni tanto lo si vede in giro con il suo cane, ma soprattutto è l’anima dietro Wayback, un’organizzazione no-profit costituita da ex detenuti e dedicata al percorso di reinserimento nella società. Attorno all’ora di pranzo, la sede di Wayback, in centro ad Oslo, inizia ad animarsi: chi frequenta il centro, oltre alle numerose attività normalmente offerte, può condividere la tavola assieme agli altri. Qui c’è anche “Maria”, la detenuta incontrata nelle due puntate precedenti.
«Wayback è nata nel 2002, osservando come spesso molti, specie con condanne legate agli stupefacenti, entravano ed uscivano dal carcere» racconta Johan, che ne è il coordinatore. «Per molti, quello è il momento più difficile, dato che i casi di morte per overdose avvengono spesso nelle prime quarantotto ore dal rilascio. Allora alcuni hanno chiesto aiuto al direttore del carcere di Oslo che si è attivato coinvolgendo anche le associazioni vicine alla chiesa. Nello statuto è indicato che la maggioranza del direttivo deve avere essere stata detenuta, così come la totalità degli impiegati».
Alessio Scandurra, che ha seguito il percorso individuando le peculiarità italiane, dipinge un quadro molto più tetro per quanto riguarda la penisola: «A fine pena per i detenuti in italia non c’è proprio nulla. Le persone vengono accompagnate all’uscita, con tutte le loro cose dentro un sacco di plastica nera, e se non li hanno già, senza nemmeno i soldi necessari per tornare a casa». Cosa comporta questo, per il futuro immediato degli ex detenuti? «Il paradosso è che molti escono dal carcere in condizioni ancora più critiche di quando ci sono entrati. Durante la detenzione infatti spesso si sfaldano i legami familiari e i rapporti sociali che avrebbero potuto rappresentare un sostegno al momento del fine pena, mentre i problemi di tossicodipendenza o le patologie fisiche o psichiche pregresse spesso non vengono curate, ma semmai aggravate dalle difficili condizioni di detenzione».
Seduto al tavolo negli uffici dell’associazione, Johan snocciola i dati che caratterizzano chi esce dal carcere, indicando quali sono spesso le principali sfide quotidiane che i suoi assistiti devono affrontare: tre su quattro hanno problemi di dipendenza da alcol o droghe, l’ottanta per cento ha debiti troppo alti da essere ripagati, solo il quaranta per cento ha un posto dove andare a dormire la sera, il ventotto per cento di loro non ha un documento di identificazione. «Quando una persona sta per uscire, normalmente ci incontriamo quando è ancora in carcere e analizziamo la situazione. Chiediamo se ci sono problemi di soldi, lavoro, casa, reti sociali, salute o dipendenze. La maggior parte delle persone risponde sì a tutto, e in quel caso non si va da nessuna parte senza dare le giuste priorità», racconta Johan indicando il loro metodo di lavoro.
Per “Maria” il ruolo giocato dall’associazionismo è fondamentale per uscire dal circolo vizioso della criminalità. «Ci sono tante organizzazioni di questo tipo, ad esempio anche la Croce Rossa, oppure Alarm che si occupa di persone con dipendenze, o Breakout. Per molti detenuti, queste associazioni sono importantissime, ma è stata solo per una coincidenza che io abbia sentito parlare di Wayback, questo non va bene». In che modo influisce positivamente? «Diciamo che il tuo nucleo sociale precedente al carcere era di persone coinvolte in attività illegali e tu vuoi smettere: in che modo puoi farlo? Questa è la funzione che hanno queste associazioni. Non è garantito che tutti ci riescano, ma è una piattaforma costruttiva per creare una rete di conoscenze migliore, avere sostegno e soprattutto sentirsi parte di qualcosa».
Proprio la necessità di costituire gruppi socialmente sostenibili e lontani dalla criminalità, è il principale scopo dell’organizzazione. «A un certo punto ci si è accorti che l’organizzazione era a rischio, avendo tante persone, inclusi dipendenti, con precedenti penali, poteva portare alla recidiva. Quindi abbiamo deciso che per poter lavorare con noi bisogna che siano trascorsi almeno due anni dall’ultima detenzione» dice Johan, che poi specifica in che modo si concretizza lo stigma che affronta chi si rivolge a lui e alla sua associazione. «Una volta usciti dal carcere non è che uno abbia troppe possibilità di stringere amicizie come a scuola o al lavoro. Spesso si ha bisogno di un orientamento alla realtà, anche perché per molti la criminalità prima e il carcere poi erano luoghi dove si aveva uno status, un ruolo, mentre fuori si ha la sensazione di essere gli ultimi. Ma chi dice questo? Ce lo diciamo noi stessi, anche perché nessuno va in giro con scritto in fronte che è un ex detenuto». Johan stesso ha dovuto affrontare diverse condanne per spaccio di stupefacenti ed è uscito dalla spirale della criminalità dopo essersi disintossicato.
Per arrivare allo step successivo, bisogna prendere il treno per raggiungere Drammen, a circa un’ora di treno dalla capitale. Qui è attivo il centro regionale di inclusione nel mondo del lavoro, con un focus per ex detenuti, nell’ambito dei programmi offerti dal Nav, l’equivalente norvegese dell’Inps. Anita Fossli Capellen è consulente nell’ambito del programma, si occupa di coordinare le attività tra Nav e Agenzia Correzionale (Kriminalomsorg) e chiarisce in che modo funziona il loro approccio: «Quando seguiamo chi è stato in carcere, non ci occupiamo di cosa abbiano fatto per finirci, ma ci concentriamo sul presente e sul futuro e capire di cosa hanno bisogno. Li aiutiamo a comprendere i servizi a cui hanno diritto, eventuali sostegni economici, o se hanno bisogno di aiuto a cercare lavoro, oppure di prendersi cura della loro salute, o se non hanno un posto immediato in cui vivere».
La situazione dei detenuti varia molto a seconda dei casi, ma la costante è quella di persone senza un adeguato livello di istruzione e senza molta esperienza lavorativa. Il compito dei funzionari del Nav è quello di analizzare questi aspetti ancora prima del rilascio. «Nei casi più complessi», spiega Fossli Capellen, «bisogna gestire persone che non hanno un’abitazione o una famiglia, quindi spesso li assistiamo per trovare una sistemazione di emergenza, ma di solito sono situazioni note mesi prima del rilascio. Sono le stesse misure che mettiamo a disposizione al resto della popolazione che non è stata in carcere».
A questo punto, viene da chiedere provocatoriamente se questo non possa essere un incentivo a commettere crimini per poi essere in qualche modo assistiti dallo stato in caso di condanna. «Il nostro welfare è costruito in questa maniera e credo che tutti i nostri assistiti debbano avere parità di trattamento, non possiamo fare distinzioni. Quello che a noi interessa è limitare la recidiva e accompagnare la persona che è uscita dal carcere, al fine di reintrodurla nella società, e per farlo è importante collaborare con diversi attori».
La stessa domanda è stata posta alla criminologa Lundgren Sørli: «Quando qualcuno sceglie di trasportare droga o vendere armi, è la gratificazione immediata ad essere decisiva in questa situazione, ovvero il momento in cui si ricevono soldi, e non c’è una punizione tanto grande da essere considerata un rischio futuro, semplicemente non viene messo in conto. Ad esempio, sappiamo che nei paesi dove viene praticata la pena di morte per certi reati, quesi avvengono comunque, per cui anche se la sanzione è particolarmente dura, non fa differenza».
Nel secondo articolo di questa serie, Paul Larsson aveva identificato un trend storico in calo delle attività criminali: in effetti, c’è una diminuzione del 25% dall’inizio di questo secolo, ma le denunce sono tornate a salire nel periodo postpandemico. A preoccupare maggiormente sono i ventiduemila casi chiusi in anticipo per mancanza di risorse, un record storico: vent’anni fa, con molta criminalità in più, erano solo 4.000.
Se è vero che la criminalità sta tornando ad aumentare e le risorse per le forze dell’ordine sono inferiori rispetto al passato, come si può limitare questa spirale? «Questa e’ una domanda più politica, e si può ragionare più come cittadini anziché professionisti», risponde Lundgren Sørli. «Sappiamo che chi è marginalizzato ha maggiori difficoltà rispetto a chi si sente parte di qualcosa di più grande, di avere le stesse possibilità. Se si impedisce la nascita di ghetti e se c’e’ la volontà politica per limitarli, allora la soluzione è avere luoghi dotati di buone scuole o asili e dove coesistano più background, persone che svolgano professioni diverse». Questo approccio, secondo Johan Lothe, si può applicare anche al carcere: «Siamo parte di un movimento europeo chiamato Rescale, che promuove la presenza di carceri piccole, con circa trenta o quaranta detenuti, integrato nella comunità locale e dove ci si possa sentire importanti come persone e offrire qualcosa al vicinato, come ad esempio riparare una bici o preparare un caffè. Tutto questo immaginando un carcere che sia in grado di essere attraente per il quartiere e non il contrario».
L’ultimo dilemma etico riguarda i crimini più atroci, quelli per i quali, anche una volta espiata la pena in carcere, permane la sanzione sociale per essersi macchiati di qualcosa che non può essere derubricato a una decisione errata o anche a un gesto istintivo. In Norvegia vi sono almeno tre condannati per atti terroristici noti in tutto il mondo: i neonazisti Anders Behring Breivik e Philip Manshaus e l’islamista Zaniah Matapour. I primi due sono stati condannati a ventun anni di carcere, il terzo a trenta poiché, nel frattempo, il massimo della pena era stato aumentato, ma la loro detenzione potrà essere periodicamente prolungata qualora venissero giudicati ancora pericolosi. «Io non credo al concetto “occhio per occhio”», dichiara “Maria”. «Per quanto riguarda il terrorista di Utøya, sono consapevole che probabilmente non uscirà mai perché non ha mai mostrato ravvedimento, ma in linea di principio la riabilitazione dovrebbe valere per tutti. È il motivo per cui non viviamo nel far-west, un sistema che è stato dimostrato non funzionare. Proprio per questo è importante seguire questi principi anche nei casi più estremi, altrimenti sarà in discussione lo stesso stato di diritto».
«I reati gravi sono già sanzionati fino a trent’anni e, potenzialmente, a vita qualora i detenuti siano ancora socialmente pericolosi» conclude Lundgren Sørli. «Il focus deve essere orientato alla riduzione della marginalizzazione, che conduce alla radicalizzazione, tenendo a mente che nella nostra società la stragrande maggioranza delle persone non è in grado di uccidere, si tratta di un processo per il quale ci si può al massimo addestrare in situazioni militari o di guerra, ma che non coinvolge la maggior parte degli individui».
Alla fine di questo percorso, rimane da chiedersi cosa fa veramente la differenza nel sistema norvegese, e cioè cosa garantisce un livello relativamente basso di recidiva a fronte di istituti piuttosto benevoli, specie se comparati con il resto del pianeta. Non si tratta di un sistema perfetto, caratterizzato anche dalle difficoltà nel combinare la necessità di riabilitare i detenuti e l’obbligo di fornire un’adeguata protezione alle vittime, specie in ambito di relazioni familiari o di prossimità, come indicato da questo rapporto stilato dalla Fondazione Stine Sofie esattamente due anni fa.
Ciò che emerge, è che senza un adeguato welfare sarebbe complesso mantenere istituti correzionali funzionali e non sovrappopolati. E che per avere istituti correzionali in grado di avere efficacia sul processo di riabilitazione, diventa necessario garantire ai detenuti una permanenza in carcere in grado di offrire sbocchi futuri, e infine, che una volta usciti, esistano strumenti per mantenere gli ex detenuti lontani dal crimine e dai fenomeni ad esso legati.