Secondo alcune stime il mercato «nero» dell’arte, relativo cioè a opere di provenienza illecita, ha un valore di ben oltre sei miliardi di euro all’anno. Per avere un’idea delle dimensioni, si pensi che la Gioconda di Leonardo è assicurata dal Louvre per circa ottocento milioni di euro, il che significa che è come se sul mercato illegale dell’arte si vendessero ogni anno più di otto quadri di valore pari alla Monna Lisa. O, se si vuole, venti con un prezzo uguale a quello di Nafea Faa Ipoipo (Quando ti sposi?) di Paul Gauguin, tra i quadri più costosi venduti in tempi recenti, passato di mano per circa trecento milioni di euro in una transazione privata nel 2015. Sebbene le più celebri opere d’arte rubate siano state a volte ritrovate (anche per la difficoltà di rivenderle), si calcola che attualmente i capolavori illegittimamente sottratti e dei quali non si hanno più tracce siano nell’intorno dei duecentomila, rappresentando, come qualcuno ha osservato, il più grande museo d’arte del mondo.
(…) Nel 1963, mentre viveva a Londra con Richard Burton, Liz Taylor acquistò all’asta da Sotheby’s un van Gogh per circa 92.000 sterline. Il quadro rappresenta la veduta di una cappella di Saint-Rémy, dipinta nel 1889, quando l’artista olandese era ricoverato nell’asilo mentale di questa città provenzale dopo essersi tagliato l’orecchio a seguito di una lite con Gauguin, e un anno prima del colpo di pistola al cuore con il quale metterà fine alla propria vita. Il quadro era appartenuto a una collezionista tedesca di religione ebraica, Margarete Mauthner, che nel 1939 aveva lasciato la Germania a causa delle persecuzioni naziste, rifugiandosi in Sudafrica, dove morì nel 1947.
Negli anni Novanta gli eredi citarono l’attrice hollywoodiana reclamando il quadro, sostenendone l’illegittima confisca da parte del regime hitleriano. Non era, in verità, del tutto chiaro se la Mauthner avesse venduto il dipinto a un mercante, anch’egli di religione ebraica, liberamente o a causa delle impossibili condizioni di vita in Germania, dunque per via di uno stato di necessità che ne aveva viziato la volontà.
Peraltro, le leggi emanate dalle forze alleate dopo la liberazione prevedevano la presunzione che le opere d’arte cedute da persone perseguitate negli anni dal 1933 al 1945 fossero state abbandonate under duress, e fossero quindi recuperabili dai precedenti proprietari. Nel giudizio, gli avvocati delle parti sollevarono numerose questioni tecniche, ma la Corte in questo caso diede ragione a Liz Taylor.
Ai nostri fini è sufficiente ricordare che uno degli argomenti vincenti della difesa si appuntò sulla prescrizione, ossia sul fatto che il passare del tempo aveva consolidato il possesso nelle mani dell’acquirente. Seppur – come detto poco sopra – non giuridicamente vincolante, è verosimile che abbia influito sull’atteggiamento dei giudici anche l’apparente buona fede di Liz Taylor, considerato che sulla base dei cataloghi disponibili l’opera pareva essere stata acquisita da una catena ininterrotta di legittimi proprietari. Si tratta di una speculazione di chi scrive, ma il punto degno di nota è questo: in tutte le vicende giuridiche vi sono elementi – diciamo – di contorno, di colore, che anche quando non sono determinanti per la soluzione di una controversia, informano l’approccio delle corti e (magari) le predispongono più positivamente verso certe interpretazioni.
In ogni caso, Liz Taylor vendette il suo van Gogh nel 2012 insieme ad altri dipinti: era il pezzo forte della collezione e venne valutato sedici milioni di dollari. Ricordiamo questo caso, tuttavia, perché rappresenta l’eccezione piuttosto che la regola: nella maggioranza degli ordinamenti, e anche nel diritto internazionale, le norme volte alla restituzione delle opere d’arte sottratte, più o meno violentemente, alle minoranze perseguitate dai regimi nazifascisti nei periodi più bui del secolo breve sono generalmente robuste e sono frequentemente state invocate con successo per ottenerne la restituzione agli eredi.