Vent’anni dopoLa vera storia di Beslan e la genesi della dittatura di Putin

Il primo settembre 2004, un gruppo di terroristi entra in una scuola e prende in ostaggio centinaia di persone. Erika Fatland, in “La città degli angeli” (Marsilio), ripercorre questo capitolo oscuro della storia dell’Ossezia settentrionale, cercando di far luce sull’assalto che costò la vita a trecentotrentaquattro persone, di cui centottantasei bambini

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La seconda giornata volgeva al termine. Aušev era scomparso così come era venuto, e la speranza iniziava a scemare. È allora che gli ostaggi, oltre un migliaio di persone addossate le une alle altre in una palestra afosa e gremita, hanno iniziato a capire che sarebbe andata per le lunghe. Non sembrava prospettarsi una soluzione a breve termine.

Impossibile non ripensare alla tragedia di due anni prima. I terroristi ceceni avevano sequestrato oltre ottocento ostaggi nel teatro Dubrovka di Mosca. Le autorità russe si erano rivelate incompetenti e, quando il terzo giorno le forze speciali avevano impiegato il gas, nessuno aveva voluto spiegare che sostanza fosse di preciso. Le centoventinove vittime erano morte quasi senza eccezione per effetti collaterali. Ma i terroristi avevano pensato a tutto. Per evitare che la scena si ripetesse a Beslan avevano sfondato le finestre, badando a garantire l’aerazione.

Il governo si sarebbe mostrato più abile, questa volta? Avrebbe cercato di trattare con i terroristi? Gli ostaggi che seguivano l’attualità sapevano che da quando Putin era presidente le autorità avevano smesso programmaticamente di trattare con i terroristi. E nulla induceva a credere che avrebbero cambiato tattica, neppure ora che erano in gioco le vite di tanti bambini. 

La pretesa di indipendenza dei terroristi ceceni era irrealistica. Putin non avrebbe mai accettato un simile ricatto: la Cecenia era già costata miliardi di rubli e le vite di moltissimi soldati. Che possibilità rimanevano? Attendere e vedere quanto i terroristi sarebbero riusciti a reggere, asserragliati com’erano in una palestra caldissima e piena di gente, con riserve limitate di cibo e acqua? Avrebbero assaltato la scuola?

Per molti degli ostaggi quello era lo scenario peggiore. C’erano bombe ed esplosivi dappertutto. Un blitz poteva solo avere conseguenze drammatiche. Rischiava di saltare per aria l’intero istituto. E quanti sarebbero sopravvissuti? Forse nessuno.

Era tutto più difficile del giorno prima. I bambini avevano più sete, più fame. Ed erano stremati, nel fisico e nel morale. Molti si erano tolti i vestiti ed erano rimasti in biancheria intima. Ma non serviva a molto: i corpicini sudavano comunque. Gli adolescenti rimanevano vestiti, anche se il caldo era insostenibile. Non potevano spogliarsi di fronte a tante donne.

Non una nuvola in cielo. L’aria era calda, rovente. La cosa peggiore era la sete. «Non la dimenticherò mai, quella sete», racconta Lena Sulidinovna, insegnante di russo, sequestrata insieme al figlio. «Non facevo che pensare allo champagne. Se qualcuno mi avesse passato una bottiglia, l’avrei scolata d’un fiato. Avevo le allucinazioni. Sentivo l’odore del tè e del caffè. La sete è stata la cosa più atroce di tutte. Alla fine pensavo soltanto a quello: bere o morire».

Verso sera alcuni dei bambini si coricano accanto agli ordigni fai da te. Sono troppo stanchi per avere paura. Altri hanno perso conoscenza. I genitori, disperati, li sollevano per mostrarli ai terroristi, implorando il permesso di farli bere. Quelli rispondono con una raffica di mitra contro il soffitto e minacciano di fucilare i bambini. Molti dei quali, disperati, arrivano a bere la propria urina. Le donne che allattano cercano di spremere qualche goccia. Altre urinano in bottiglie e bicchieri per dare da bere ai figli. È l’unica cosa che possono offrire loro.

Nel frattempo il dottor Leonid Rošal’, che i terroristi si rifiutano ancora di far entrare, ha dedicato la giornata a preparare gli ospedali di Beslan e Vladikavkaz, dando disposizioni per il ricovero di moltissimi feriti: molti di più di quei trecentocinquantaquattro che i media russi continuano a citare. Ha verificato che avessero in dotazione il necessario, che le scorte di farmaci potessero bastare, che i macchinari giusti fossero a disposizione. Allertando medici e chirurghi per tenerli pronti a intervenire d’urgenza. Il maggior numero possibile. Tutte le operazioni in programma vengono rimandate, tranne quelle indispensabili.

Il giorno prima, informato dei fatti di Beslan, il presidente Putin ha interrotto le ferie a Soči per rientrare a Mosca. L’indomani appare in televisione per un primo commento a caldo, in occasione di un incontro con il re Abd Allah di Giordania trasmesso in diretta dalle reti russe. «Il nostro primo dovere, nell’attuale situazione, è ovviamente salvare vite umane e tutelare la salute degli ostaggi», dichiara.

Così non può andare avanti, e molti degli ostaggi lo sanno. Da un momento all’altro la situazione precipiterà, è ovvio. Per cui le autorità che coordinano l’unità di crisi (quella civile) lavorano febbrilmente a un progetto di accordo sull’indipendenza della Cecenia, valutando possibili misure per un ritiro graduale delle truppe russe.

Per parte loro i militari, cioè i vertici della FSB e i generali, hanno chiesto rinforzi. Nel corso della giornata sono arrivate squadre speciali da tutti i servizi possibili e immaginabili. Intorno alla mezzanotte, venuti da Vladikavkaz, entrano a Beslan addirittura dei carri armati.

Tratto da “La città degli angeli” (Marsilio) di Erika Fatland, pp. 50, 18,00€

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