Se girate per panifici e avete un occhio attento vi sarete accorti che c’è stato negli ultimi anni un grande cambiamento sugli scaffali. Ci sono sempre più pani grandi, e sempre meno pani piccoli e pani di tradizione regionale. Perché mangiamo pani più grandi e abbiamo dimenticato i pani piccoli e lavorati? Rischiamo di perdere l’enorme diversità dei pani italiani? Ci siamo fossilizzati sui pani grandi per tanti motivi, proviamo a elencarli tutti, iniziando dalla storia recente.
Ormai un decennio fa, era il 2013, uno chef che allora aveva due stelle Michelin e che proprio l’anno dopo arrivò alla terza, Niko Romito, fece un cambio epocale nel suo menu degustazione. Passò dalla fetta che proponeva nei cestini all’inserimento della pagnotta calda, intera, a metà del percorso del Ristorante Reale. Era a tutti gli effetti una portata del menu, non accompagnava altro ma era il piatto in sé. Possiamo datare qui l’arrivo sulle tavole dei ristoranti di tono di un pane completamente diverso da prima, che – allora – era una vera rivoluzione, dando centralità a un alimento che l’aveva persa, e raccontando una storia nuova. La storia del pane di Romito diventa un’altra rivoluzione, e la pagnotta oggi si può comprare e infornare anche a casa, a dimostrazione di quanto quell’esperimento gastronomico fosse utile per una nuova visione domestica del pane.
Proprio negli stessi anni, c’è un altro personaggio che cambia le regole del mondo del pane in Italia: è Davide Longoni, che all’età di trent’anni e dopo studi in scienze informatiche decide di rivoluzionare l’azienda di famiglia e di dare una nuova strada alla panificazione contemporanea. Giorilli e Pol – due pilastri della panificazione – sono i suoi mentori, e da subito il suo forno diventa un luogo di cultura del pane, dove la pagnotta è protagonista. Longoni di fatto reinventa il modo di fare il pane, ma non solo: ripensa a come esporlo nei negozi, e lo fa diventare un oggetto del desiderio. Gli ridà quel senso di centralità che aveva via via perso negli anni ’90 e lo fa nella città che detta i trend. Dalla sua, ha un grande desiderio di trasmettere il suo sapere, sintetizzato in un libro, e accoglie nel suo panificio e in laboratorio tantissimi giovani dalle esperienze più disparate che decidono di investire tempo ed energie da lui per imparare e apprendere.
Risultato di queste due storie? Oggi la pagnotta divisa in quarti arriva tiepida al tavolo di tantissimi ristoranti, anche non stellati, a volte anche non bravissimi a farla. E almeno metà dei panifici “nuovi” e alla moda propongono pani di grande formato esposti come totem in vetrine scarne. È la gentrificazione della panificazione, è – forse – il passaggio obbligato da pensiero, rivoluzione, a moda, ad abitudine. Ma forse al di là di questo, ci sono anche tanti altri piccoli motivi per cui proprio questa è diventata una moda, e non altre.
Intanto, c’è un tema pratico: i pani grandi durano di più, se li compri oggi puoi facilmente mangiarli per tre quattro giorni. La durata nel tempo, in una società sempre di corsa, è ottimizzazione: non devo andare a comprare il pane ogni giorno ma posso andarci solo due volte alla settimana. Risparmio tempo, fatica, chilometri.
Un altro dei motivi è di ordine tecnico: fare un pane più lavorato, quindi panini più piccoli, o con forme particolari, o con sfogliature è più complicato da fare, servono maestria e abilità, serve tanto tempo, serve tanto spazio. Economicamente è vantaggioso fare pochi pani grandi rispetto a fare tanti panini con forme e impasti differenti.
Poi c’è un tema culturale: non abbiamo maestri, non abbiamo cultura rispetto a questo alimento di cui abbiamo perso tracce e memoria. La capacità di replicare si apprende da un professionista, e di questi professionisti in grado di tramandare gesti, sapienza e saperi non ce ne sono più molti.
C’è un tema – anzi due – legati alla moda: non associamo più il pane regionale al pane di qualità, e anzi il consumatore cerca il pane a lievito madre e preparato con grani più profumati perché ha più appeal, perché ha avuto una grande spinta di marketing, perché ha riscosso successo in termini di tendenza. Peraltro, si pensa erroneamente che rappresenti un ritorno al passato, quando nel passato i pani tradizionali e regionali italiani – a parte rari casi – erano di piccolo formato e molto lavorati, preparati con farina bianca e con lievito di riporto o biga.
La demonizzazione del pane bianco “tradizionale”, che viene considerato nocivo per la salute e per la dieta, ha fatto abbassare la richiesta. Questo ha causato una spinta da parte dei panificatori a diminuire le quantità per prediligere la qualità, che viene identificata in questo momento con farine meno setacciate (attenzione: dire che la farina è “raffinata” è improprio, perché la farina non subisce alcun processo chimico ma solo processi fisici che la fanno diventare più o meno bianca a seconda della dimensione dei fori dei setacci da cui viene fatta passare).
Il fatto che il pane non sia più un alimento che deve saziare la fame ne ha fatto un altro oggetto gastronomico: i pani speciali hanno dato uno statuto nuovo al pane e l’hanno fatto diventare un contenitore di storie e un contorno. Da bene comune è diventato un bene forfettario e speciale, un accessorio, appunto, ma di moda: e questo ha causato anche un aumento giustificabile del prezzo.
Appiattendo forme e dimensioni, andando incontro alla globalizzazione che vuole che tutti mangino ovunque le cose di moda in questo momento specifico, si sta perdendo quella specificità che fa di un certo tipo di pane il risultato del “terroir”, esattamente come succede per il vino. Il pane locale è il risultato del mix tra tradizione di un luogo, specificità del tipo di grano coltivato lì che è sempre servito per fare un tipo di pane specifico, probabilmente perché è il tipo di grano più adatto per quel tipo di tecnica e di risultato. Se – come diciamo spesso – mangiamo ciò che siamo, ogni luogo ha puntato sul pane più adatto al cereale in grado di rappresentare la cultura di quel territorio.
Ma a fronte di queste criticità, non possiamo non ammettere che la pagnotta di grande formato ha dato un nuovo valore al pane, ha fatto scoprire un mondo nascosto, ha portato alla luce la filiera, ha dato modo agli artigiani di crescere conoscendo nuove farine.
Quello che non vogliamo che succeda, e che il mondo della panificazione non si può permettere, è di fare lo stesso errore fatto con il vino naturale. Il pane è libero ma è un prodotto che parte da scienza, territorio, tradizione, competenza. La pagnotta lascia a tanti la libertà di pensare di poter essere un panificatore: perché è più facile, come abbiamo detto, ed è anche meno complesso da gestire sul fronte imprenditoriale. Ma dobbiamo sempre ricordare che la scelta imprenditoriale non va sempre di pari passo con la scelta di passione e di cuore, e non sempre trasformare una passione in un lavoro è positivo per chi lo fa e per il settore.
Lo storytelling è suggestivo e premiante, ma a quello che raccontiamo devono corrispondere un’effettiva qualità e una grande preparazione. Improvvisare, tentare senza gli adeguati strumenti, è un inganno che deteriora il settore e può destabilizzare il mercato, danneggiando gli artigiani impegnati da tempo e con competenza e rendendo una spinta ideale un sicuro insuccesso.