In trentacinque anni, il Giappone ha cambiato primo ministro ben diciannove volte. Venerdì 27 settembre sarà la ventesima. E non sarà «una come le altre», perché il momento vissuto dal Giappone è a dir poco cruciale. Durante i quasi tre anni al potere di Fumio Kishida è successo praticamente di tutto. Sul piano economico, Tokyo ha perso il podio tra le più grandi economie del mondo, lasciando il posto alla Germania. Il «nuovo capitalismo sociale» con cui Kishida aveva conquistato l’opinione pubblica e il partito Liberaldemocratico, la tentacolare forza politica che guida il Paese quasi ininterrottamente da decenni, non si è mai concretizzata. I tre «decenni perduti» che hanno segnato il declino dell’ascesa nipponica non sono mai del tutto finiti, anche se inizia a intravedersi qualche segnale incoraggiante. Di certo, è finito il «grande sonno» geopolitico di Tokyo.
La guerra in Ucraina e il timore di un crescente allineamento tra Russia e Cina hanno ridestato il Giappone dal suo lungo torpore. Kishida è stato il leader asiatico più favorevole allo schieramento contro Mosca dopo l’invasione. Ha visitato Bucha e Kyjiv, proprio mentre il presidente cinese Xi Jinping si trovava a Mosca per incontrare Vladimir Putin. Nonostante fosse considerato come una colomba sulla Cina, ha abbandonato la tradizionale cautela sui dossier più sensibili che riguardano Pechino, a partire da Taiwan, rendendo chiaro che la stabilità dello Stretto sia legata a doppio filo con la sicurezza nazionale giapponese.
Ha viaggiato frequentemente negli Stati Uniti, con cui ha concluso rilevanti accordi di sicurezza che hanno rafforzato i legami nel settore della difesa. E non solo. Nel 2022, Kishida è diventato il primo leader giapponese a partecipare a un summit della Nato. E lo ha fatto per tre volte consecutive, siglando un ambizioso documento di partnership in sedici punti che non esclude la futura apertura di un ufficio di collegamento dell’Alleanza Atlantica a Tokyo. Già, perché Kishida ha insistito come nessun altro sull’interconnessione del sistema di sicurezza tra est e ovest, tra Asia ed Europa, tra Pacifico e Atlantico. «L’Asia orientale rischia di diventare la prossima Ucraina», ha ripetuto spesso. Con la supervisione americana, il primo ministro giapponese ha riavviato i rapporti con la Corea del Sud, dopo anni di tensioni commerciali e diplomatiche, dopo il summit di Camp David con Biden e il leader sudcoreano Yoon Suk-yeol.
Più di recente, ha creato una nuova alleanza trilaterale con le Filippine in un altro vertice a Washington, alla presenza del presidente Ferdinand Marcos Jr. Ma il Giappone ha lanciato anche una serie di iniziative regionali e con altri Paesi dell’Asia del Pacifico, dall’Australia all’India fino al Vietnam, nel tentativo di creare una rete di sicurezza potenzialmente in grado di assorbire l’impatto di un parziale disimpegno degli Stati Uniti, non impossibile da pronosticare nel caso di un ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump.
Nelle ultime settimane da premier, Kishida ha provato anche ad accelerare il processo di revisione della costituzione pacifista imposta dal generale statunitense Douglas MacArthur alla fine della Seconda Guerra Mondiale. L’articolo chiave è il numero nove, che stabilisce che «il popolo giapponese rinuncia per sempre alla guerra come diritto sovrano della nazione e alla minaccia o all’uso della forza come mezzo per risolvere le controversie internazionali». A tal fine, l’articolo prevede che «le forze terrestri, marittime e aeree, così come un altro potenziale bellico, non verranno mai mantenute».
Formalmente, il Giappone non ha un vero e proprio esercito, bensì delle forze di autodifesa. Si tratta sostanzialmente di una forza militare de facto, che dal 1954 sostituisce le forze armate prebelliche. «L’era in cui ci si limitava a parlare della Costituzione è finita. Ora è il momento di camminare e iniziare a pensare a come realizzarla», ha dichiarato Kishida, che ha sottolineato la necessità di menzionare esplicitamente le Forze di autodifesa nella Carta e di stabilire una clausola che consenta di estendere i mandati dei deputati in caso di emergenza nazionale.
È in questo scenario che si svolgono le elezioni del 27 settembre per individuare il successore di Kishida, dopo che il premier uscente è stato costretto alle dimissioni per l’effetto di un maxi scandalo sul finanziamento ai partiti. Il tutto mentre, proprio nei giorni scorsi, i rapporti con Russia e Cina hanno subito ulteriori scossoni. Da una parte, un jet militare della Russia ha effettuato tre incursioni nello spazio aereo giapponese. Dall’altra, l’accoltellamento di un bambino giapponese residente in Cina ha creato nuove frizioni nel rapporto con Pechino, sempre esposto alle ferite di una storia mai dimenticata.
La scelta del nuovo leader del partito Liberaldemocratico, che sarà poi nominato premier dal parlamento il primo ottobre, è dunque molto delicata. I candidati in corsa sono nove, il numero più alto di sempre. Un milione di sostenitori iscritti al partito, che rappresentano meno dell’uno per cento della popolazione giapponese, avranno la stessa voce in capitolo dei trecentosessantotto deputati liberaldemocratici nel primo turno di votazioni. Ma poiché in quella fase nessun candidato dovrebbe ottenere la maggioranza, il voto dei parlamentari acquisterà molto più peso nel ballottaggio tra i primi due classificati.
Secondo la maggior parte dei sondaggi, la sfida principale dovrebbe essere quella tra l’ex ministro della Difesa Shigeru Ishiba e l’ex ministro dell’Ambiente Shinjiro Koizumi, peraltro figlio dell’ex premier Junichiro. Sebbene sia un veterano del partito, una vittoria di Ishiba indicherebbe probabilmente una certa voglia di cambiamento. Ishiba è popolare tra la base del partito, ma in precedenza non è stato all’altezza a causa della mancanza di sostegno da parte dei colleghi deputati. Stavolta la situazione potrebbe cambiare. Ishiba è un fermo sostenitore della riforma costituzionale ed è ritenuto il favorito dopo i tentativi andati a vuoto nel passato.
Durante la campagna elettorale, ha puntato molto sulla carta della sicurezza. «Perché l’Ucraina è stata invasa in quel modo? Perché non è nella Nato», ha commentato durante il dibattito televisivo tra i candidati. «Esiste un sistema come la Nato nell’Asia orientale? Non è così. Taiwan non è nemmeno membro delle Nazioni Unite. Come possiamo mantenere la pace e la sicurezza in questa regione?» Ishiba, che ha peraltro significativamente preannunciato la sua candidatura durante una visita a Taipei, è andato oltre, proponendo esplicitamente l’istituzione di una Nato asiatica. Un passo che nemmeno Shinzo Abe o lo stesso Kishida avevano mai compiuto. La proposta ha ricevuto un’accoglienza fredda negli Stati Uniti, dove un possibile ritorno di Trump renderebbe l’ipotesi ancora più remota. E i rivali interni hanno criticato l’idea di Ishiba, definendola «irrealizzabile».
Il principale sfidante sembrerebbe Koizumi Jr che, secondo i sondaggi allargati al di là degli iscritti al partito, sarebbe persino il favorito dell’opinione pubblica. La vittoria di questo candidato, che ha solo quarantatré anni, sarebbe una sorta di rivoluzione in un sistema politico come quello giapponese, dove l’anzianità viene vista come un valore.
Oltre a essere di bell’aspetto, Koizumi beneficia della sua distanza dal tradizionale sistema delle fazioni all’interno del partito, che ha più volte criticato apertamente. Questo lo rende popolare agli occhi del pubblico, che lo percepisce come una figura non compromessa con le zone d’ombra della politica. Tuttavia, questa posizione potrebbe giocare a suo sfavore proprio all’interno della stessa forza politica che ambisce a guidare. Diversi deputati potrebbero non vederlo di buon occhio, così come la Cina, che ricorda le sue frequenti visite al santuario Yasukuni, dove sono custoditi i resti dei caduti giapponesi, inclusi quattordici criminali di guerra responsabili di atrocità durante il periodo coloniale in Cina e Corea del Sud. Suo padre è stato l’ultimo primo ministro a visitare Yasukuni mentre era in carica.
Pechino, invece, preferisce di gran lunga Yoshimasa Hayashi, attuale segretario capo di gabinetto ed ex presidente dell’Associazione parlamentare di amicizia Giappone-Cina. Durante la campagna elettorale, Hayashi ha enfatizzato la sua conoscenza di Pechino come un punto di forza.
Un altro nome appartenente all’area più tradizionale è quello di Toshimitsu Motegi, ex ministro degli Esteri e attuale segretario generale del partito, strettamente legato all’ex premier Abe. Tuttavia, molti degli ex sostenitori di Abe, ucciso in un attentato nel luglio 2022, sembrano orientarsi verso Sanae Takaichi, ministra della Sicurezza Economica, molto apprezzata anche dai circoli finanziari. Ex batterista heavy metal, Takaichi è una figura di spicco della destra più radicale del partito, al pari dell’ex ministro Takayuki Kobayashi.
La vittoria di uno dei due potrebbe complicare il riavvicinamento con la Corea del Sud. Tra le candidate femminili, spicca anche Yoko Kamikawa, ex ministra degli Esteri laureata a Harvard, finita nel mirino degli attivisti per i diritti umani per aver autorizzato sedici esecuzioni capitali durante il suo mandato come ministra della Giustizia.
A completare il quadro ci sono l’ex capo di gabinetto Katsunobu Kato e, soprattutto, il ministro del Digitale Taro Kono. Molto popolare tra i giovani, nei mesi scorsi Kono ha dichiarato guerra a fax e floppy disk, ancora presenti nella complessa burocrazia giapponese. Kono è una figura molto diversa dai consueti premier. Viene ritenuto un anticonformista schietto e rappresenta un’alternativa riformista rispetto ai soliti leader. Tra le altre cose parla correntemente l’inglese. Altro fatto non proprio usuale per la politica giapponese.
La scelta del Partito Liberaldemocratico avrà un impatto significativo sul posizionamento del Giappone, sia in Asia, sia a livello globale. Alleati e rivali attendono di capire quanto rapido sarà il suo «risveglio» e in quale direzione si muoveranno i suoi prossimi passi.