«Dammi le tue masse stanche, povere, ammucchiate, desiderose di respirare liberamente, i miseri scarti dei tuoi litorali affollati. Manda a me questi senzatetto, sballottati dalla tempesta: io innalzo la mia lampada accanto alla porta d’oro».
Le parole della poetessa Emma Lazarus, incise sul piedistallo della Statua della Libertà sull’isolotto di Ellis Island a New York, hanno accolto milioni di emigranti alla ricerca del sogno americano. A partire dalla fine dell’Ottocento, infatti, alla old emigration di matrice nord-europea se ne affianca una nuova di provenienza meridionale (italiani, spagnoli, slavi) e orientale (polacchi, rumeni, bulgari, armeni). Storicamente, quindi, anche l’Italia diventa terra di emigrazione, anzi a un certo punto «siamo davvero il popolo migrante per eccellenza», come osserva un editoriale del Corriere della Sera del 13 luglio 1903 intitolato “Le correnti dell’emigrazione italiana”.
Queste correnti si dirigono in misura significativa proprio verso gli Stati Uniti, anche se in ritardo rispetto ad altri paesi europei in cui il fenomeno risaliva all’età moderna o alla fine delle guerre napoleoniche, mentre le partenze dalla Penisola assumono connotati di massa solo tra l’ultimo ventennio dell’Ottocento e la Prima guerra mondiale, per poi proseguire in modo imponente nel dopoguerra. Tuttavia, pur essendo uno dei fenomeni più rilevanti della storia postunitaria, si è teso a dimenticare quanto l’emigrazione abbia inciso sulla società, la demografia, la cultura e l’economia nazionale.
Solo in anni più recenti, anche in seguito all’attribuzione del diritto di voto agli italiani all’estero e all’intensificarsi dei flussi migratori in entrata che hanno interessato la penisola italiana, si è preso atto dell’importanza di studiare in modo organico, sistematico e approfondito il fenomeno dell’emigrazione di massa, in particolare negli Usa […].
Tra il 1876, anno della prima rilevazione ufficiale, e il 1988 quasi ventisette milioni di italiani lasciano il paese e meno della metà, tra gli undici e i tredici milioni, fanno ritorno o perché non ammessi o per il fallimento dell’esperienza all’estero o per il desiderio di tornare alle origini dopo una vita di lavoro. L’ampiezza del fenomeno, molto differenziato tra Nord e Sud, tra regioni diverse, tra montagna, città, campagne e pianura, ha spinto gli studiosi a parlare di una vera e propria diaspora.
In essa si possono individuare quattro fasi: la prima, dal 1876 al 1900; la seconda, dall’inizio del Novecento alla Prima guerra mondiale; la terza, in coincidenza con il periodo tra le due guerre; la quarta, dal secondo dopoguerra alla fine degli anni Sessanta. Nella prima fase le statistiche rilevano 5.300.000 espatri, in progressivo aumento e con un picco nell’ultimo quinquennio.
In gran parte si tratta di una emigrazione individuale e maschile (ottantuno per cento), che comprende molti giovanissimi (il sedici per cento ha meno di quattordici anni). Prevalentemente sono contadini, ma anche artigiani, operai, meccanici e una quota di professionisti. Due su tre provengono dalle regioni centro-settentrionali (in particolare Veneto, Friuli Venezia Giulia e Piemonte) e si dirigono verso mete europee. In pratica la forza lavoro in eccesso della pianura padana emigra verso la Francia e il Belgio o, più raramente, verso Svizzera e Germania, con l’obiettivo di realizzare nel più breve tempo possibile il capitale necessario ad acquistare la terra nei luoghi d’origine.
Dal Veneto e dal Friuli emigrano anche piccoli proprietari verso l’America Latina, con la speranza di trovare terra da coltivare e nuova dimora. I meridionali invece preferiscono in genere mete extraeuropee, in particolare gli Stati Uniti, in cerca di lavoro come manodopera non qualificata. All’inizio le mete europee sono prevalenti, poi cedono progressivamente il passo a quelle extraeuropee.
Questa fase apre la strada alla cosiddetta grande emigrazione del Novecento. Dai primi anni del secolo alla Grande Guerra, infatti, si registra un vero e proprio esodo che, stando alle statistiche ufficiali, probabilmente sottostimate poiché basate sui nullaosta al rilascio dei passaporti e non sulle partenze effettive, porta all’estero in media seicentomila persone l’anno, per un totale di nove milioni di persone.
L’emigrazione di questo periodo, alimentata dal fatto che l’industrializzazione dell’epoca non è in grado di assorbire l’eccedenza di manodopera, è in prevalenza extraeuropea e per circa il quarantacinque per cento è diretta verso gli Stati Uniti. Il settanta per cento di coloro che scelgono questa meta sono meridionali, provenienti per lo più da Calabria, Sicilia e Campania. Rispetto al periodo precedente, anche se permane la netta prevalenza maschile, cresce il numero delle partenze che riguardano intere famiglie o familiari di persone già emigrate.
In complesso, tra il 1876 e il 1915 emigrano oltre 14 milioni di italiani, di cui 7,6 milioni oltreoceano e gli altri in Europa, più una piccola minoranza negli altri continenti. I motivi che spingono questa massa di persone a emigrare sono diversi e rispondono essenzialmente a quattro macrofattori: il differenziale salariale, la spinta demografica, la catena migratoria e la politica migratoria.
Alle opportunità economiche e lavorative offerte dai paesi di destinazione, infatti, si aggiungono spinte politiche (i governi che promuovono o limitano il processo di entrata e uscita) e sociali (amici e parenti che emigrano per primi e alimentano la cosiddetta chain migration). E c’è anche una componente di muta protesta sociale, quella di chi si vede negato un posto nella società e perfino il diritto di voto e decide di votare «con i piedi», lasciando il paese.