La sensazione netta è che ci siamo adagiati come Paese sugli allori. Ormai l’Unità d’Italia sembra che sia un processo scontato e irreversibile. Come quel marito che ha fatto tanto per convincere la propria amataa sposarlo, con un corteggiamento lungo, contrastato e difficile, con mille difficoltà anche da parte delle famiglie di appartenenza e che una volta sposato, con tanti figli, ritiene l’amore della moglie acquisito, e la trascura pensando al lavoro e alle esigenze materiali, fin quando non si accorge che lei lo tradisce e rimane basito perché non se lo sarebbe mai aspettato, così il Paese rischia di svegliarsi e ritrovarsi spaccato in due, percorso da disordini e disagi imprevisti.
È successo a tanti Paesi, perché a fianco di quelli che lottano e pagano prezzi incredibili per riunirsi, o per difendere i propri territori, e diventare grandi e potenti, come la Germania, vi sono anche esperienze che vedono grandi realtà disgregarsi. È successo alla grande Unione Sovietica, che perde molti territori e si riduce alla Federazione Russa. Che poi volendo ritornare ai fasti originari si arma e procede «all’operazione speciale», così come Putin ha continuato a chiamare per anni la guerra in Ucraina.
Ha riguardato la Jugoslavia con la scissione in sette Stati; Slovenia, Croazia, Bosnia, Macedonia del Nord, Erzegovina, Kosovo e Serbia. Processo non solo non indolore ma anche cruento, perché alcuni Stati per l’indipendenza hanno affrontato sanguinose guerre civili. Si è spezzata in due la Cecoslovacchia, con la rivoluzione di velluto. Il risultato è che dividendosi questi popoli sono diventati Staterelli indipendenti, ma ininfluenti nello scacchiere mondiale.
Un rischio simile potrebbe correrlo anche l’Italia, che già rispetto agli altri due grandi Stati d’Europa, Germania e Francia, conta nei fatti, nell’Unione, molto meno. Un rischio concreto perché è noto che quando un Paese è attraversato da differenze di reddito particolarmente elevate la conseguenza spesso è la sua scissione. Un’ipotesi non lontana viste le premesse che con la spesa storica, adesso istituzionalizzata con l’autonomia differenziata, che allontanerà sempre più Nord e Sud e porterà le due parti ad allontanarsi nei diritti di cittadinanza, qualcuno potrebbe cavalcare uno scontento che sarà sempre più crescente.
Ma nessuno pensi che la cosa più logica e probabile sia che non cambi nulla. Perché non va dimenticato che nulla è per sempre e che popoli che sono stati grandi nel corso della storia hanno perso tutto il loro potere e la loro forza. A cominciare dai grandi Egizi, un popolo di cento milioni di abitanti, oggi ritornati a essere poveri e dipendenti dai ricavi dell’attraversamento del Canale di Suez.
«Nulla è per sempre» dovrebbe essere il mantra di un Paese nato, malamente, solo nel 1860, dopo una guerra al Regno delle due Sicilie, mai dichiarata, grazie all’aiuto e agli interessi del Regno Unito e della Francia, all’incapacità di Ferdinando II di capire i venti nuovi che soffiavano in Europa e alla dabbenaggine di non preparare e adeguare armi tecnologiche nuove, ritrovandosi con equipaggiamenti obsoleti rispetto ai cannoni della flotta piemontese. Grazie in realtà anche alle alcove organizzate da Camillo Benso Conte di Cavour con la complicità della cugina cortigiana Contessa di Castiglione, che, nata a Firenze nel 1837, per matrimonio diventò sua cugina.
In guerra tutte le armi sono consentite e la capacità politica di Cavour può considerarsi geniale, così come la capacità di Vittorio Emanuele II di servirsi di cotanto fine politico.
Quello che era imprevedibile accadde e quell’«espressione geografica» diventò il settimo Paese industrializzato del mondo. Ma tale evoluzione non ci deve fare dimenticare l’insegnamento che è necessario essere molto attenti, perché mai si può avere la sicurezza che tutto potrà rimanere invariato.