Non c’è pace per la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, recentemente rinominata alla guida dell’esecutivo comunitario. Il commissario francese Thierry Breton, responsabile del Mercato interno, ha rassegnato polemicamente le proprie dimissioni «con effetto immediato» con una lettera pubblicata su X. Secondo Breton, von der Leyen avrebbe affossato la sua candidatura per motivi personali. «Pochi giorni fa, nell’ultimissima fase dei negoziati sulla composizione del futuro Collegio, lei ha chiesto alla Francia di ritirare il mio nome – per motivi personali che in nessun caso ha discusso direttamente con me – e ha offerto, come contropartita politica, un portafoglio presumibilmente più influente per la Francia nel futuro Collegio», si legge nel documento. Von der Leyen ha risposto con un tweet, trasferendo le mansioni di Breton alla Commissaria Margrethe Vestager fino alla nomina della prossima Commissione Ue.
L’ormai ex commissario francese ha definito «discutibile» la sua gestione dell’esecutivo comunitario di Von der Leyen, che lui (e per la verità non solo lui) ha più volte definito come verticista e accentratrice: decisioni prese senza consultare la squadra nella sua collegialità, spesso in maniera avventata e senza farsi mancare passi falsi. Breton era stato confermato per un secondo mandato da Macron, contravvenendo alla regola fissata da von der Leyen (e tecnicamente non vincolante), per cui le cancellerie dei Ventisette avrebbero dovuto nominare due candidati commissari – un uomo e una donna – al fine di poter comporre una rosa quanto più equilibrata dal punto di vista della rappresentanza di genere.
Subito dopo le dimissioni di Breton, sembrava legittimo aspettarsi la nomina di una donna per ribilanciare ancora un po’ il nuovo Collegio. E invece, da Parigi è arrivata nel giro di qualche ora la candidatura di un altro uomo, Stéphane Séjourné, già capogruppo dei liberali di Renew Europe all’Eurocamera di Strasburgo prima di assumere l’incarico di ministro degli Esteri e degli affari europei lo scorso gennaio, nel gabinetto del suo ex compagno Gabriel Attal (il premier più giovane della Quinta repubblica, che ha appena passato il testimone al premier più anziano di sempre, l’ex negoziatore Ue per la Brexit Michel Barnier).
Fonti dell’Eliseo hanno fatto sapere che «il Presidente della Repubblica ha sempre difeso l’ottenimento da parte della Francia di un portafoglio chiave di Commissario europeo, incentrato sui temi della sovranità industriale e tecnologica e della competitività europea», sottolineando come Séjourné soddisfi «tutti i criteri richiesti» per ricoprire l’incarico di commissario e che «il suo impegno per l’Europa gli consentirà di sostenere pienamente questa agenda per la sovranità Ue».
Stando alle ultime indiscrezioni del Berlaymont, la presidente della Commissione aveva già promesso alla Francia una vicepresidenza esecutiva con deleghe pesanti all’industria e a settori cruciali per l’autonomia strategica tanto cara a Macron. Si allungherebbe così la lista degli Stati membri che, stando alle voci che circolano a Bruxelles, avrebbero ceduto alle pressioni politiche di von der Leyen – anche se, appunto, nel caso francese la pressione sarebbe servita solo a far fuori Breton (tra i due i rapporti si erano irrimediabilmente deteriorati nel corso dell’ultimo anno per un atteggiamento fin troppo indipendente e autonomo del francese) ma non a rimpiazzarlo con un profilo femminile.
Prima della Francia, infatti, anche Romania e Slovenia hanno cambiato in extremis il proprio candidato (uomo) per sostituirlo con una donna: Bucarest ha messo la socialdemocratica Roxana Mînzatu (eletta eurodeputata lo scorso giugno) al posto del suo compagno di partito Victor Negrescu (che rimarrà così vicepresidente dell’Aula di Strasburgo), mentre a Lubiana la diplomatica liberale Marta Kos ha preso il posto dell’ex presidente della Corte dei conti, Tomaž Vesel.
E proprio dalla Slovenia rischia di arrivare un altro problema per Von der Leyen, costringendola forse a posticipare nuovamente la presentazione del suo secondo Collegio: la data prevista inizialmente era lo scorso 11 settembre, ma il cambio del nome all’ultimo minuto ha innescato dei ritardi che rischiano di diventare un caso diplomatico. Franc Breznik, il presidente della commissione parlamentare competente e compagno di partito dell’ex premier Janez Janša (che in Europa è affiliato ironicamente ai Popolari di von der Leyen, con cui è in rotta da tempo), starebbe infatti rifiutando di ufficializzare la nomina di Kos a meno che non venga resa pubblica la lettera con cui von der Leyen avrebbe richiesto la sostituzione di Vesel.
Il muro contro muro continua, ma senza il passaggio formale del Parlamento sloveno, oggi la popolare tedesca potrebbe presentare ai capigruppo a Strasburgo una squadra composta da venticinque membri anziché ventisei, in quello che risulterebbe uno spettacolo politicamente poco edificante.
Senza considerare le polemiche sul nome di Raffaele Fitto, o meglio sull’opportunità di offrire a un esponente dei Conservatori europei il famigerato portafoglio di peso che il governo italiano reclama da mesi, e che potrebbe arrivare nonostante la presidente del Consiglio Giorgia Meloni si sia astenuta sul bis a von der Leyen in sede di Consiglio europeo e la pattuglia di Fratelli d’Italia a Strasburgo le abbia votato addirittura contro.
Socialisti, liberali e Verdi hanno già cercato di fermare la nomina di Fitto, anche se non è chiaro fino a che punto sono disposti a spingersi per tenere il punto – cioè, fino a quanto sono disposti a ritardare ulteriormente l’inaugurazione del nuovo Collegio, che potrebbe già slittare da novembre a dicembre a seconda di quanto a lungo si protrarranno le valutazioni sui conflitti d’interessi dei candidati commissari e le loro audizioni da parte degli eurodeputati.
Ma a rallentare tutto potrebbero essere anche i deputati dei due nuovi gruppi della destra radicale, i Patrioti per l’Europa (che ospita Fidesz, il Rassemblement national e la Lega, tra gli altri) e l’Europa delle nazioni sovrane (il gruppo che ruota intorno all’AfD tedesca). Dati gli equilibri politici più precari che in passato nelle commissioni parlamentari, infatti, potrebbe essere più difficile per i candidati sotto esame raggiungere agevolmente la soglia dei due terzi per passare alla fase successiva (cioè il voto in Plenaria sull’intero Collegio).