Scrittore selvaggioI vent’anni di “2666”, e l’orrore dell’epilogo frustrato

Il primo ottobre 2004 usciva postumo il mastodontico romanzo di Roberto Bolaño. Inserito nell’elenco del New York Times dei cento migliori libri del ventunesimo secolo, ha dato forma al paesaggio psichico e morale della nostra epoca

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Nessuno sa come finiscono le storie di “2666” di Roberto Bolaño. Proseguono per un po’ e si troncano sul più bello. Sembra quasi che il narratore si diverta a condurre per mano il lettore attraverso le diverse trame del romanzo per poi abbandonarlo, al culmine della tensione narrativa, in un abisso privo di senso. Uno spasimo che non si risolve in nulla, un’agognata meta che si rivela tremendamente vuota. «Un’oasi d’orrore», insomma, come recita il primo emistichio di un verso della poesia Le Voyage (1857) di Charles Baudelaire, scelto dall’autore cileno come esergo dell’opera («Une oasis dhorreur dans un désert dennui»).

Vent’anni fa la casa editrice spagnola Anagrama pubblicò le oltre mille pagine di “2666”, uno dei romanzi più importanti del periodo postmoderno, meritevole di comparire nella lista dei migliori cento libri del ventunesimo secolo, stilata dal New York Times la scorsa estate. Bolaño era morto da oltre un anno quando le prime copie vennero vendute. Ma il suo manoscritto gli sopravvisse, grazie all’intervento dell’editore Jorge Herralde e del critico letterario Ignacio Echevarria. I due si ritrovarono di fronte a cinque opere distinte, sebbene interrelate carsicamente, come dimostrato dalla maggior parte degli studiosi. Decisero di pubblicare tutto il materiale come un’unica opera, scandita da cinque capitoli denominati “parti”.

Ne venne fuori un prodotto mastodontico di millecentocinque pagine, in grado di rivaleggiare in lunghezza con i mostri sacri del postmodernismo, quali “L’arcobaleno delle gravità” (1973) di Thomas Pynchon con novecentododici pagine, “Infinite Jest” (1996) di David Foster Wallace con millesettantanove pagine, “Underworld” (1997) di Don DeLillo con ottocentoventisette pagine e “Le correzioni” (2001) di Jonathan Franzen con seicentosettantadue pagine. Un tratto, quello dell’ampiezza dell’intelaiatura del romanzo, che rivela l’ambizione dell’opera contemporanea a misurarsi con il mondo intero.

In maniera analoga ai suoi colleghi nordamericani, anche Bolaño nel suo progetto narrativo di maggiore successo ha cercato di dare forma all’infinita molteplicità della realtà. “2666” si compone infatti di una miriade di vicende e personaggi (probabilmente nessuno ha mai osato contarli). Tipi anticonformisti, aperti all’esperienza e all’avventura, che si muovono all’interno dello storyworld come nomadi o viaggiatori alla ricerca di qualcosa. Letterati, reporter, prostitute, criminali, poliziotti, che vengono osservati nel loro perpetuo sradicamento da un luogo all’altro, in preda a una misteriosa inquietudine – la stessa che il poeta latino Orazio descrive in una delle sue “Odi”: «post equitem sedet atra cura».

Le loro vicende si moltiplicano, allargando esponenzialmente lo spazio diegetico. Ogni storia possiede statuto d’indipendenza rispetto alle altre, è una frazione potenzialmente autonoma nell’intero. Come osservato da Stefano Ercolino, professore di Letterature Comparate presso l’Università Ca’ Foscari, l’opera di Bolaño, similmente a quelle di Wallace & Co., «presenta come criterio gestionale principe della diegesi la frammentazione del racconto in unità narrative». Il risultato è un sistema aperto, frattale, espandibile indefinitamente, che lancia il guanto di sfida alla complessità del mondo.

Una totalizzazione della realtà, un processo di riepilogo dell’esistente, che ben si intona alla tensione enciclopedica del postmoderno. In un’epoca come la nostra, caratterizzata dalla crisi delle ideologie, l’anelito a catturare in un sol respiro il mondo, multicentrico e sfuggente, trova riscontro in gran parte della letteratura occidentale degli ultimi quarant’anni. «Maggiore è la complessità del mondo, maggiori divengono gli sforzi per rappresentarla e le conoscenze necessarie per tentarne una sintesi», spiega Ercolino facendo particolare riferimento a opere come “L’arcobaleno delle gravità” e “Infinite Jest”.

E “2666” non è da meno: la folta proliferazione di contenuti dei più disparati ambiti del sapere (dalla biologia marina alla letteratura tedesca contemporanea, dagli snuff movies alla geometria euclidea) compone un universo narrativo in continua espansione, che trova nel fenomeno della digressione il suo elemento cardine. Considerata come mero allontanamento dall’azione principale nelle opere di finzione classiche, è oggi la tecnica che cerca di far stare tutto il mondo dentro un unico testo.

Alla teleologia dell’intreccio pre-moderno subentra così la perpetua esplorazione della digressione: non più un finale definitivo, una chiusa che riannoda i fili del discorso, ma la perenne capacità di riaprirsi delle storie narrate. Epiloghi deboli, insomma, indecisi, che non chiudono il testo, e non ne fissano il senso una volta per tutte. Una visione che trova eco nel pensiero del filosofo Byung-Chul Han, attento osservatore delle dinamiche sociali del nostro presente. Nel saggio “La crisi della narrazione” (Einaudi, 2023), scrive che «nell’epoca tardo-moderna, caratterizzata dall’apertura e dalla dissoluzione dei confini, le forme del concludere e del precludere subiscono un processo di degradazione».

Questo aspetto ha notevole riscontro in “2666”. Il romanzo è infatti costellato di episodi che sembrano preludere a un momento di Spannung, a un’epifania rivelatoria, ma finiscono per implodere oscuramente su se stessi. Per usare un’immagine, è come se l’insieme delle linee narrative principali e delle digressioni del romanzo componesse un intreccio di fiumi, affluenti e rivoli che si alimentano carsicamente, senza mai sfociare nel mare. È una «meta vuota» quella a cui giunge il lettore dopo aver tanto divagato tra i segmenti diegetici.

L’ultimo atto del romanzo ne è un esempio. Nel finale del quinto capitolo di “2666”, “La parte di Arcimboldi”, si narra dell’incontro tra Benno von Arcimboldi, misteriosa ed elusiva figura dell’opera, e l’erede dell’inventore della ricetta del gelato Fürst Pückler, una delle tantissime comparse dell’universo bolañiano. La loro conversazione non è imperniata attorno a un argomento preciso ma si sviluppa, appunto, tramite digressioni. Quando sembra che il dialogo possa svelare il proprio senso nascosto, ecco che il narratore sabota il finale del discorso, vanificando il tanto atteso scioglimento del segmento narrativo. E così l’ultima frase del romanzo rilancia il racconto anziché chiuderlo: «Poco dopo uscì dal parco e la mattina seguente partì per il Messico».

In questo come in altri casi, il sipario si chiude prima che il lettore possa aver afferrato il senso della vicenda narrata. Come sostenuto da diversi critici, si tratta di una scelta strutturale ben congegnata dall’autore cileno. Una traduzione in termini stilistici dell’insufficienza della scrittura a comprendere quanto la trascende. È come se il libro avesse un disegno, ma questo disegno non riuscisse davvero a far presa sulle cose: e Bolaño pianifica così la sua incapacità di far quadrare i conti.

Il finale dell’opera, dunque, non è un vero finale, e non lo sono nemmeno le sequenze conclusive dei diversi frammenti narrativi in tutto “2666”. I lettori, al pari dei personaggi dello storyworld, sono condannati a un disarmato non lo so che marchia la vicenda nel segno del mistero. Sia a livello diegetico che a livello extradiegetico, infatti, si realizza un incolmabile vuoto di senso.

Una resa di fronte alla possibilità di capire, che suona come un orrendo ritornello per tutta l’opera. La sensazione – per usare le parole di un personaggio del romanzo, il vecchio artista Edwin Johns – è che «il mondo è tutto un caos», e che la letteratura non sia in grado di com-prenderlo.

Il lettore che si immerge nelle pagine “2666” sperimenta così smarrimento e vertigine. E probabilmente era proprio questo l’intento di Bolaño: usare la scrittura per portare il lettore sull’orlo del precipizio ed esporlo all’abisso. In un’intervista del 2002, ragionando in merito al rapporto tra forma e contenuto, lo scrittore aveva condensato in qualche frase questo concetto: «La forma cerca l’artificio, la storia cerca il precipizio», aveva dichiarato. «Non è che non mi piacciano i precipizi, ma preferisco vederli da un ponte».

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