Desertificazione socialeGli italiani sono sempre più vecchi e sempre più soli

Un appello a riscoprire il desiderio come chiave per affrontare le sfide di un’innovazione spesso distante dalle transizioni urgenti del nostro tempo: Paolo Venturi e Flaviano Zandonai, in “Spazio al desiderio” (Egea), esplorano il meccanismo generativo di ogni trasformazione sociale ed economica

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Un paese che sta invecchiando, un paese di sonnambuli che restano inermi davanti ai presagi e in cui si fanno strada paure generalizzate: dal tracollo economico, all’ambiente, alla guerra mondiale. È una fotografia preoccupante e inquietante per l’Italia quella scattata dal cinquantasettesimo rapporto del Censis dove al centro c’è il peso del calo demografico (nel 2050 l’Italia avrà perso complessivamente 4,5 milioni di residenti e la flessione demografica sarà il risultato di una diminuzione di 9,1 milioni di individui con meno di sessantacinque anni e di un aumento di 4,6 milioni di over sessantacinque). 

Si tratta di cambiamenti che modificano anche i desideri della popolazione che non è più alla conquista dell’agiatezza, ma alla spasmodica ricerca di uno spicchio di benessere (il novantaquattro per cento rivaluta la felicità che deriva dalle piccole cose di ogni giorno come il tempo libero e gli hobby e oltre l’ottanta per cento è molto attento alle relazioni personali). Questi dati ci confermano che le transizioni non sono neutre, perché toccano le persone, le loro vite e non solo il reddito economico. Perciò guardando la fotografia di questo paese le note di ottimismo non sono molte, ma non possiamo perdere la speranza e neppure appaltarla o esternalizzarla alle leggi o alla tecnica. 

La speranza, come diceva Cicely Saunders, «è fatta di cose che hanno bisogno che qualcuno le faccia accadere». Un messaggio chiaro che rappresenta l’augurio più vero che possiamo farci: far accadere ciò che desideriamo. «Far accadere» mette in campo il soggetto nella sua integralità come portatore di bisogni e come struttura di desiderio. Una tensione tutt’altro che astratta e che possiamo toccare con mano nella domanda di senso delle nuove generazioni, nella domanda di qualità della cura delle famiglie, nella domanda di riconoscimento delle comunità spesso dimenticate: spinte queste che ci segnalano bisogni insoddisfatti ma anche aspirazioni e risorse non comprese. Due tratti che non possiamo più separare.

Andare a caccia di bisogni, riuscire a mapparli e intercettarli (purtroppo in numero via via più esiguo), per poi costruire azioni redistributive, rappresenta una postura di policy sempre più debole e inefficace; anche la crescente benevolenza e apertura alla comunità da parte delle imprese se da un lato è una nota positiva utile ad allargare la condivisione del valore aggiunto oltre le colonne d’Ercole degli shareholder, dall’altra non è in grado di rispondere in maniera adeguata alla domanda contenuta nella crescente povertà di speranza che tocca quotidianamente la vita delle persone. 

La vulnerabilità, infatti, si insinua nelle fragilità dei legami, dei fattori endogeni al lavoro, della numerosità dei figli, della salute dei genitori, della geografia dentro cui ci si trova ad abitare. A ciò si aggiunge il peso di fattori ascrittivi, ossia condizioni di vita dentro cui ci si trova de facto a vivere (cultura, istruzione, reddito famigliare ecc.), che impattano in maniera quasi definitiva sulla vita delle persone, stratificando in maniera irreversibile la disuguaglianza, anzi tramandandola come un’eredità.

La patologia che non stiamo curando è quella di una crescente desertificazione e de-mutualizzazione dei rapporti e dei legami. Nelle pagine del suo saggio sulle origini del totalitarismo, Hannah Arendt osserva come la fragilità nasca da una desertificazione, ossia da uno «sradicamento permanente del soggetto». Lo diceva pensando alla solitudine (loneliness) come base dello svuotamento della speranza che porta gli individui a far la coda al gratta e vinci o a riempire il proprio tempo nell’occupare con il proprio corpo lo spazio di un centro commerciale, solo per esibire una presenza fra sconosciuti e distanti. 

Una desertificazione crescente che alimenta una crescente paura e conseguentemente una mancanza di fiducia. Iniquità che, a dire il vero, non sembrano trovare un antagonismo culturale e di proposta concreta: come se avessimo metabolizzato lo status quo, come se il crescente uso della parola «sociale» ci avesse reso improvvisamente certi di vivere in una società migliore. Non è così e la prova di ciò è il declassamento di tutte quelle iniziative che nascono dal basso e che ambiscono a trasformare il contesto e rompere equilibri, per generare progresso. Pur avendo una Costituzione che ama e riconosce la libertà dell’individuo in tutte le sue forme sociali, fatichiamo a costruire politiche di reale sussidiarietà e amministrazione condivisa. 

La normatività giuridica e amministrativa non ha ancora fatto scalare quella comunitaria e sociale, con il rischio di vedere la società civile cadere in trappola di un nuovo isomorfismo che si presenta con la faccia buona della co-progettazione, dell’erogazione, della convezione, ma che poi produce un’omologazione dei tratti distintivi del terzo pilastro. Un processo che è tossico non solo per l’identità, ma anche per le sfide in gioco, che richiedono quel surplus che solo le motivazioni intrinseche, le relazioni, l’attivazione della cittadinanza, il mutualismo riescono a garantire per poterle affrontare.

La desertificazione sociale si può curare attraverso un processo di ri-significazione e valorizzazione autentica di quelle relazioni che né Stato né mercato sono in grado di attivare. Da qui la necessità di rilanciare un impegno di tutte le organizzazioni a movente ideale e orientate all’interesse generale sui contenuti e non solo sulle forme, sulla democrazia come espressività e non solo come procedura, sulla cura come inclusione e non solo come prestazione, ambendo non solo alla gestione del servizio ma alla co-produzione di soluzioni buone per la comunità e per il lavoro. 

Si tratta di un lavoro corale che chiama in causa nuove alleanze per la trasformazione sociale. L’antagonismo alla desertificazione sociale va costruito ripartendo da alleanze di scopo fra persone e organizzazioni diverse, capaci di aprire le istituzioni, ossia i soggetti che definiscono le regole del gioco, non solo alle competenze ma anche alle motivazioni.

Tratto da “Spazio al desiderio” (Egea) di Paolo Venturi e Flaviano Zandonai, pp. 160, 18,00€ 

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