Credere che il mondo, se governato dai sapienti, dai filosofi, funzionerebbe meglio di quello governato da chi ha il potere, i tiranni, non è poi una grande idea. I primi, se sostituissero i secondi, dovrebbero infatti affrontare dei temi diversi da quelli che hanno elaborato. Il primo deve occuparsi del «Governo», il secondo deve cercare la «Verità». Se l’applicazione della Verità fosse risolutiva delle vicende umane, dovremmo volere il filosofo al posto del tiranno. Ossia, in termini crudi, il «Governo della Verità».
Ma siamo sicuri che il filosofo sappia governare? Meglio ancora, siamo sicuri che la Verità si sappia trasformare in Buongoverno? La risposta è no, se pensiamo che la Verità sia, come è, composta da entità rigide che mal si accordano con la complessità e l’indeterminatezza delle decisioni del Governo. Il Governo deve prima di tutto sopravvivere, per poi eventualmente filosofare. Se solo filosofeggia, non sopravvive. Detto altrimenti, se il filosofo andasse al governo finirebbe per pensare come il tiranno.
Come vedremo, il mondo è sfuggente e complesso e dunque il filosofo non ha una guida per governare. Nemmeno il tiranno ha una guida, ma deve comportarsi come se l’avesse. Ne consegue che la soluzione dei problemi è piuttosto difficile e raramente possibile, perché questi sono un complicato intreccio di politica ed economia.
La soluzione non è mai un processo lineare che, come un treno, passa da una stazione all’altra, con un miglioramento del risultato (l’avvicinarsi all’arrivo) a ogni tappa. Il percorso subisce, infatti, contraccolpi. A ogni stazione c’è chi si oppone, occupando i binari, facendo ritardare il treno. Non solo, in ogni stazione possono sorgere nuovi problemi che vanno oltre l’occupazione dei binari, e che possono spostare il percorso verso altre e sconosciute zone invece che alla stazione successiva.
La metafora delle stazioni che possono portare il treno non alla stazione successiva ma da tutt’altra parte, si comprende ricordando quanto affermava nel 2002 Donald Rumsfeld, il segretario alla Difesa degli Stati Uniti, ai tempi della caccia alle (supposte) armi di distruzione di massa di Saddam Hussein: «[…] ci sono cose che sappiamo di sapere. Sappiamo anche che esistono delle incognite, vale a dire che sappiamo che ci sono alcune cose che non sappiamo. Ma ci sono anche altre incognite, quelle sconosciute: quelle che non sappiamo e che non conosciamo».
Dunque, il sapere del filosofo è composto da entità rigide, disposte da una stazione all’altra, che mal si accordano con la complessità e l’indeterminatezza delle decisioni che deve prendere il tiranno, che trova i binari occupati o il treno spinto da altre parti che ignora. Degli esempi di entità rigide: basta avere un mercato del lavoro meno rigido? Basta ridurre il potere degli oligopoli? È sufficiente mettere il debito pubblico sotto controllo? Serve avere un tasso di inflazione basso che alimenta la stabilità dell’economia? Sì, serve se si vuole dare una risposta immediata, ma appena si entra nel merito tutto si complica. Ci sono mercati del lavoro rigidi che funzionano.
Gli oligopoli hanno un potere propulsivo che le imprese minori non hanno. Il debito pubblico è anche una diversificazione dei risparmi e un modo per tenere basse le imposte. La stabilità dei prezzi, la mancanza di inflazione, non portano alla stabilità finanziaria; anzi, accade che i prezzi stabili con i tassi compressi alimentino le «bolle» delle obbligazioni e delle azioni. Bolle che a loro volta creano instabilità, e si ripercuotono sull’economia tutta.
La traccia del racconto
La Prima guerra mondiale aveva mostrato quanto potente potesse essere lo Stato, quanto potesse realizzare. Come effetto della guerra le masse entrano per la prima volta nella vita politica. Che cosa sarebbe accaduto se lo Stato si fosse imposto anche durante la pace? Da qui la tentazione delle élite rivoluzionarie. Esse volevano uno Stato che, attraverso la politica, non solo dirigesse l’economia, ma che spingesse anche nella direzione voluta i comportamenti privati dei cittadini. Nasce così il «progetto Stato». Si ha poi, dopo la Seconda guerra mondiale, la formazione dello «Stato sociale» che, elevando il tenore di vita della cittadinanza, ne ottiene il consenso. Ma la gran crescita che aveva finanziato lo Stato sociale dopo i primi tre decenni del secondo dopoguerra si è arrestata. Ecco che s’impone allora una nuova corrente di pensiero, quella del neoliberalismo, che intende cambiare le priorità: dare cioè un maggior peso delle decisioni private e un minor peso allo Stato.
Nel tempo neoliberale emergono, tanto per complicare le cose: gli effetti della globalizzazione, l’economia della conoscenza, una demografia in cui prevalgono gli anziani, il settore immobiliare che crea diseguaglianze. Si ha, infine, dopo una crisi epidemica e dopo la fine della globalizzazione «facile», un ritorno dello Stato come protagonista della vita economica, e non soltanto l’Italia ha sperimentato tutti i succitati fenomeni. Quanto allo sviluppo dei Paesi arretrati troviamo il ruolo del comunismo, un sistema sociale che ha consentito ad alcune società poco sviluppate e colonizzate di abolire il feudalesimo, riconquistare l’indipendenza economica e politica, e costruire un capitalismo indigeno.
Infine, occorre segnalare degli andamenti particolari ma di grande importanza: quando e perché l’Europa ha cominciato a comprare il petrolio prima sovietico e poi russo, diversificando dalle materie prime non rinnovabili che venivano dal Medio Oriente, del quale non aveva più un controllo di un qualche peso. Come la Gran Bretagna perde l’impero, ma recupera un ruolo di primo piano (il centro finanziario britannico si è sviluppato con la raccolta di capitali da tutto il mondo).
La nascita di zone governate dall’economia che si fa Stato, con un esempio della differenza fra il moderno e l’arretrato e del suo impatto che si evince dall’analisi dell’economia israeliana e di Gaza. Un fenomeno che s’inserisce fra il mondo globalizzato e l’intervento pervasivo dello Stato e che ricorda il ruolo che secoli fa era stato della Compagnia delle Indie Orientali.
Tratto da “Filosofi e tiranni”, di Giorgio Arfaras, Paesi edizioni, 158 pagine, 13,30 euro