Un altro spunto di riflessione riguarda il fatto che le specie aliene arrivano più facilmente nei paesi economicamente sviluppati con intensi traffici di beni e di persone – come nella Francia del XVIII secolo – e tuttavia le conseguenze più gravi si registrano spesso nei paesi più vulnerabili, come quelli africani e asiatici. Infine, come abbiamo cominciato a vedere, le specie aliene non sono un problema solo per le singole specie autoctone, vittime della predazione o sconfitte nella competizione, ma anche per gli ambienti naturali che possono risultare profondamente pregiudicati dal loro arrivo. Non è tutto. Il salto dalla questione ecologica a quella sociale è dietro l’angolo, perché le invasioni biologiche arrivano a colpire duramente anche l’uomo, rendendo la vita difficile soprattutto alle comunità più fragili e arrivando talvolta a intaccare anche un bene primario come la salute delle persone. Questa varietà impressionante di impatti purtroppo non è un’anomalia, ma un tratto comune a molte invasioni biologiche, le cui ramificazioni possono coinvolgere svariati settori produttivi, infrastrutture, economie locali e nazionali.
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Tra ambienti naturali e società umane esistono legami complessi e inestricabili, e l’introduzione di specie aliene, andando a incrinare gli equilibri ecologici esistenti, può influire negativamente anche sulle dinamiche sociali. È uno dei simboli stessi del Mediterraneo a chiarire ancora meglio questo punto. Si tratta di un cactus dalle pale verdi piene di spine sottili, fiori giallo-arancio e frutti deliziosi ricchi di semi. Oggi è considerato da molti un elemento tipico del Meridione e delle isole dei nostri mari, eppure il nome con cui lo conosciamo rivela già l’origine esotica della pianta. Il fico d’India (Opuntia ficus-indica) è infatti nativo del Messico centrale e da migliaia d’anni è utilizzato dai popoli mesoamericani che lo consideravano sacro e ne usavano tutte le parti, i frutti dolci da mangiare, la linfa fermentata per produrre il liquore pul- que, le pale per estrarre un liquido dissetante o da usare come foraggio per il bestiame. I colonizzatori spagnoli scoprirono le incredibili doti di questa pianta sacra, che chiamarono tuna e portarono in Europa. Grazie ai tanti utilizzi, alla robustezza e alla capacità di crescere anche in assenza di acqua, il fico d’India è stato diffuso in molte aree del mondo dove si è insediato benissimo. Alla fine degli anni ’40, alcuni funzionari delle colonie britanniche piantarono pale di fico d’India in un remoto avamposto del Kenya, il paesino di Dol Dol. Qui, sul fertile altopiano di Laikipia a nord di Nairobi, la mattina presto era possibile vedere le cime innevate del Monte Kenya, coperte durante il giorno da un cappello di nuvole.
Il fico d’India veniva usato dagli inglesi non solo per i frutti, ma anche perché la rapida crescita dei fusti creava una barriera quasi invalicabile che serviva da recinto per il bestiame. Per mezzo secolo il cactus si è espanso limitatamente, senza creare particolari problemi. Ma da qualche decennio l’avanzata è diventata esplosiva e il fico d’India ha invaso pascoli e terreni. Perché questo improvviso cambio di passo? Le cause sono diverse e concatenate tra loro, ma in gran parte sono legate alla modificazione degli habitat. La crescita della popolazione umana nella regione e il passaggio da una vita nomade dei pastori dell’altopiano a una più sedentaria hanno portato a uno sfruttamento eccessivo dei terreni e al taglio degli alberi, che hanno impoverito i pascoli. Il 60% dei pascoli del Kenya settentrionale sono oggi gravemente compromessi. Inoltre, il suolo indurito dalla siccità è diventato inospitale per molte delle specie erbacee che per millenni hanno reso ricchi i pascoli dell’altopiano, aprendo la strada al fico d’India che può crescere anche su suoli molto duri dove non trova competitori. A giocare un ruolo importante sono anche elefanti e babuini, che in mancanza di altre fonti di cibo si affidano ai nutrienti frutti del fico d’India. L’intestino di un elefante è lungo 20 metri e nel tempo che impiega a digerire i frutti il grande pachiderma può spostarsi di decine di chilometri, prima di rilasciare i semi con i suoi escrementi. Si calcola che un elefante può spargere anche 3.000 semi di fico d’India in un solo giorno. Anche i babuini ne vanno ghiotti e contribuiscono a diffondere la pianta, che comunque è bravissima a diffondersi anche da sola; basta un frammento di pala strappato e caduto sul terreno a dar nuova vita. Il risultato è che il fico d’India è presente nel 90% dei pascoli dell’altopiano ed è la specie prevalente nel 12% delle aree usate dagli allevatori kenyani. E tutto questo è avvenuto in pochi decenni.
La rapida invasione del cactus messicano si mescola con gli altri fattori di cambiamento ambientale, determinando effetti inaspettati. A causa dell’impoverimento dei pascoli, i circa 7.000 elefanti che vivono nell’altopiano si avvicinano sempre più ai villaggi attratti dai frutti del fico d’India e dai campi coltivati. Il risultato è una crescita dei conflitti. Ogni anno una o due persone muoiono per gli attacchi degli elefanti e circa 5 o 6 elefanti vengono uccisi dai contadini locali. Come purtroppo spesso accade, il costo più alto di questi stravolgimenti ambientali lo pagano gli anelli più deboli della società. Chi si spezza la schiena nei campi per cercare di pulirli dai fichi d’india e restituire un po’ di terra al bestiame sono donne e bambini, che a piedi nudi lavorano sui terreni pieni di spine estirpando a fatica i cactus dalle radici, bruciandoli per prevenire che si formino nuove piante. E il numero crescente di elefanti costringe molti bambini a non andare a scuola per evitare incontri pericolosi, una situazione che rischia quindi di pregiudicare anche il futuro delle giovani generazioni.