America innovates, Europe regulates. Cosa c’è di vero, e cosa c’è di fuorviante, in questo slogan condiviso da euroscettici atlantisti e da europeisti disillusi? Cominciamo dalla seconda parte. L’Europa è un regolatore, certo. E dovrebbe essere orgogliosa di esserlo. Essere regolatori nel mondo evolutivo, multipolare e imprevedibile di oggi significa tentare di scrivere delle regole per un gioco nuovo, che si tratti di intelligenza artificiale generativa o di responsabilità delle piattaforme e dei social. L’AI Act o il Digital Services Act avranno i loro limiti, perché le tecnologie corrono più velocemente delle regole, ma intanto frenano o tentano di frenare l’uso anarchico e potenzialmente destabilizzante di queste stesse tecnologie.
Nei giorni in cui il potere delle big-tech in politica è sempre più evidente, proibire certi usi dell’AI (come il social scoring o il riconoscimento facciale senza eccezioni) o responsabilizzare le piattaforme sui temi della disinformazione o delle interferenze elettorali dovrebbe essere una priorità condivisa, un imperativo categorico per chi non sottovaluta le minacce alla democrazia moderna.
«La società ha bisogno di regole per proteggere la democrazia», come ha ricordato l’economista di Yale e di Bruegel Fiona Scott Morton, parlando delle Big Tech e del potere di Elon Musk. Regole che magari non piacciono ad alcuni operatori economici, che preferirebbero norme più lasche o addirittura assenti, ma che tutelano i cittadini e i loro diritti.
Altra questione è quella del salto dal livello continentale a quello globale di queste regole, perché essere regulator «come se l’Europa fosse l’unico continente» (cit. Roberto Sommella) può avere un effetto limitato e a volte controproducente, quando la vera dimensione di queste problematiche è globale. Ma per essere attori credibili e ascoltati nel mondo, disporre di regole avanzate e replicabili rappresenta la migliore arma, anche perché`, guardandoci attorno, quali altre potenze mondiali potrebbero ricoprire questo ruolo di apripista?
Anche sulla lotta ai cambiamenti climatici e alle emissioni di CO2 l’Europa fu la prima a legiferare, e oggi, dopo trent’anni, il settanta per cento delle economie mondiali ha abbracciato questa stessa battaglia. È una delle manifestazioni del cosiddetto Brussels effect, che spinge altre parti del mondo ad adeguarsi alle regole europee (dal Gdpr alla produzione aeronautica a basse emissioni, per limitarci a due esempi).
Dunque, essere regulator non è una colpa. Ma certo bisogna anche essere innovator. E l’Europa, in una certa misura, lo è, anche se lo dice spesso a bassa voce. Prendiamo i supercomputer Hpc europei, compreso il “Leonardo” gestito dal Cineca a Bologna. Prendiamo le nascenti AI factories che permetteranno a tutte le start-up europee di accedere gratuitamente a questa potenza di calcolo. Prendiamo il programma Horizon Europe, con quasi cento miliardi di euro per ricerca e innovazione, compreso lo European Innovation Council (Eic) che ha già contribuito allo sviluppo di undici unicorni (valore di un miliardo di euro). O prendiamo realtà come Spotify, Netflix o BlaBlaCar, tutte beneficiarie di investimenti garantiti dall’Europa nella loro fase di crescita.
Certo, l’Unione europea deve fare di più sulla strada dell’innovazione: le risorse pubbliche ci sono ma, come sottolineato da Mario Draghi nel suo rapporto sulla competitività, il novanta per cento è gestito a livello dei singoli Stati e solo il dieci per cento a livello europeo, cosa che provoca frammentazione e impatti limitati.
Ci sono poi le note criticità nell’attirare capitali privati, nel navigare tra ventisette legislazioni diverse e nell’ attirare o trattenere i migliori talenti, ma molte iniziative sono state lanciate in questi ultimi due anni e l’attuale Agenda europea dell’innovazione sarà presto rafforzata in un’autentica strategia europea per le start-up e le scale-up e da un nuovo Fondo europeo per la competitività’, annunciati da Ursula von der Leyen nelle sue linee guida per il 2024-29.
È una sfida a molte dimensioni, perché intreccia dimensioni pubbliche e private, il livello europeo e quello nazionale, programmi operativi e interventi regolatori (riecco la funzione del regulator: per completare la Capital Markets Union o per creare il ventottesimo regime invocato da Enrico Letta e Draghi, ci vogliono nuove regole che abbattano le barriere esistenti, come avvenne per il mercato interno). Ed è una sfida anche di tipo comunicativo, perché il ruolo delle regole nelle tecno-democrazie di domani o l’esistenza di molte iniziative per lo più sconosciute non possono rinchiudersi nel perimetro di un breve slogan, che anzi rischia di comunicare esattamente il contrario.