Mentre il Movimento 5 stelle rischia di finire divorato da uno scontro fratricida a colpi di pec, notai e ricorsi, come è giusto che sia – parlo ovviamente in termini di giustizia cosmica – l’ultimo governo populista di questa infinita stagione è andato a incagliarsi, in verità non da solo, proprio lì dove tutto è cominciato.
Alla prima fonte da cui sono sgorgate le fortune dei populisti di ogni colore, prima grillini, poi salviniani, quindi demo-contiani (quella che probabilmente passerà alla storia come la brigata Superbonus) e ora meloniani: sul finanziamento dei partiti e i costi della politica.
Quello che è accaduto, e che oggi è sulle prime pagine di tutti i giornali, è che Sergio Mattarella ha fermato il tentativo del governo di raddoppiare il finanziamento ai partiti, attraverso la riformulazione di un emendamento presentato da Pd e Avs al decreto fiscale. Materia eterogenea, ha fatto sapere il Quirinale, per la quale non si ravvisavano le caratteristiche di necessità e urgenza. E così l’operazione, portata avanti alla chetichella, con rara furbizia, da Fratelli d’Italia e Pd (Avs si sarebbe nel frattempo sfilata), è finita nell’ignominia. E non lo dico tanto per il merito della proposta, che fissava una soglia garantita dello 0,2 per mille sull’intero gettito Irpef, da ripartire tra le forze politiche, anche se il contribuente non esprime preferenze (il cosiddetto inoptato).
Il punto è che l’abolizione del vecchio finanziamento pubblico e la sua sostituzione con la formula ipocrita del 2 per mille era il punto culminante di una lunga campagna, e avrebbe dovuto essere la soluzione definitiva al problema del discredito della politica (soluzione omeopatica, evidentemente). Una riforma realizzata dal governo di Enrico Letta nel 2013, ma già promessa ai grillini da Pier Luigi Bersani nella sfortunata trattativa dello streaming e continuamente invocata pure da Matteo Renzi nella sua scalata al Pd.
Al fondo, si tratta di una tragedia istituzionale, politica e culturale che va avanti almeno dal 2007. E cioè da quando Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo lanciavano sul Corriere della sera – attenzione, mica sul Fatto quotidiano o sulla Verità – la fortunatissima campagna contro la «casta», che di lì a poco sarebbe divenuto l’inno, la bandiera e il principale propellente del Movimento 5 stelle. Come avrebbero notato soddisfatti gli autori nella prefazione all’ennesima ristampa, «la frase “costi della politica” era stata citata nell’archivio Ansa 482 volte in ventisette anni dal 1980 al maggio 2007: poco più di una volta al mese. Da allora alla fine di settembre 2008 è stata al centro di 1931 notizie d’agenzia. Più di tre al giorno». Complimenti.
Questa tragedia ovviamente non finisce oggi, ma ora almeno i suoi principali beneficiari incontrano il contraccolpo che si meritano, tra chi grida «onestà» ma intanto gradirebbe assai continuare a intascare dalla politica trecentomila euro all’anno per non fare nulla (come vogliamo chiamarlo, vitalizio di cittadinanza?) e chi, dopo essersi sgolato contro i tagli alla sanità ed essersi vantato di avere abolito (più o meno) il finanziamento ai partiti e il ristorante del Senato, coronando l’opera con lo sfregio del taglio al numero dei parlamentari (risparmi praticamente irrisori, ma Camere assai più facilmente controllabili: complimenti anche a voi), fischietta o racconta balle quando qualcuno, sempre troppo pochi, gli chiede conto dei duecento miliardi di euro spesi per agevolare le ristrutturazioni ai proprietari di casa. Per la precisione: centosessanta miliardi, se guardiamo al solo Superbonus; duecentoventi miliardi, considerando l’insieme dei bonus edilizi. Ripetiamolo insieme: due-cento-venti-miliardi-di-euro (fonte: «Superbonus, come fallisce una nazione», di Luciano Capone e Carlo Stagnaro, casa editrice Rubbettino). E adesso parlatemi ancora dei costi della politica, mentre cerco di non morire soffocato dalle risate.
Questo è un estratto di “La Linea” la newsletter de Linkiesta curata da Francesco Cundari per orientarsi nel gran guazzabuglio della politica e della vita, tutte le mattine – dal lunedì al venerdì – alle sette. Più o meno. Qui per iscriversi.