Ce la farà il mondo a vincere la battaglia contro il cambiamento climatico? Dopo più di trent’anni di negoziati a livello globale, le prospettive sono tutt’altro che incoraggianti. L’attività diplomatica più ambiziosa si è concentrata su una serie di accordi sottoscritti praticamente da tutti gli Stati, tra cui il Protocollo di Kyoto del 1997 e l’Accordo di Parigi del 2015. Tuttavia, a causa degli interessi discordanti tra i molti paesi coinvolti, non si è riusciti a convergere nemmeno sulla semplice necessità di un’azione concreta, e un consenso significativo è risultato ancor più sfuggente.
Non essendo chiaro quali strategie siano più efficaci per ridurre le emissioni, non è stato possibile intervenire in modo incisivo; per prudenza, i negoziatori hanno evitato di sottoscrivere impegni precisi e hanno accettato solo trattati che permettessero loro di fare quello che avevano sempre fatto, sotto un’etichetta più gradevole. Nel frattempo, dal 1990, le emissioni sono cresciute di quasi due terzi e non accennano ad arrestarsi, con l’unica eccezione della temporanea frenata dell’economia globale durante la pandemia da Covid-19. Eppure, per fermare l’innalzamento delle temperature globali occorre un taglio drastico degli inquinanti, con la prospettiva di azzerarli nel lungo periodo.
Parallelamente, simili problemi hanno afflitto la governance globale anche a un livello più generale. Per oltre un decennio, l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), fondata nel 1995, è rimasta paralizzata da un processo decisionale vincolato al consenso unanime, analogo a quello che ha azzoppato la diplomazia sul clima. Anche in altri ambiti (diritti umani, investimenti, coordinamento delle politiche monetarie) l’ordine internazionale sembra essersi ormai logorato. In assenza di un paese egemone e di una tecnocrazia affidabile (circostanze che, secondo molti, rappresentano una svolta positiva) manca un’autorità capace di ricostruirlo. L’unico effetto delle proteste popolari è stato quello di consolidare la paralisi. La recessione del 2008 ha mostrato i limiti del modello di crescita postbellico e il trauma economico innescato dalla pandemia ha esacerbato le diseguaglianze sociali. Non sorprende che i cambiamenti climatici e la politica economica si siano intrecciati in modo molto stretto dal punto di vista politico.
In molti paesi, per i conservatori la decarbonizzazione è un controverso simbolo delle élites globali. Il ripudio dei patti sul clima – il disdegno riservato da Donald Trump all’Accordo di Parigi, per esempio – è considerato un modo per rimettere al primo posto gli interessi nazionali dopo decenni di sfrenato globalismo. Per i progressisti, invece, il tentativo di conciliare sostenibilità e benessere inclusivo si concretizza in appelli a favore di ingenti investimenti pubblici, come il Green New Deal. Questa visione ha avuto fortune alterne e si è affermata solo in una piccola parte dell’economia globale, responsabile di una porzione sempre minore delle emissioni globali.
Questo quadro a tinte fosche non restituisce però l’immagine complessiva. Accanto alla sequela di accordi globali deludenti e falsi assunti su soluzioni miracolose, ci sono molti ambiti in cui si registrano successi significativi e promettenti. Da qui possiamo trarre lezioni importanti per la nostra battaglia contro il riscaldamento globale. A livello sia mondiale che locale, e in tutti quelli intermedi, sono già emersi efficaci modelli di risoluzione dei problemi che consentono progressi su temi che richiedono un impegno diffuso senza che ci sia però un chiaro piano d’azione, come nel caso del cambiamento climatico.
Questi modelli funzionano anche in paesi molto diversi tra loro, come Cina, Brasile e Stati Uniti, e per problemi eterogenei, come il buco dell’ozono o l’inquinamento dei mari. Affrontano problemi controversi, che richiedono interventi invasivi, quali sono tutti quelli legati alla decarbonizzazione, e toccano punti la cui soluzione comporta necessariamente spodestare interessi consolidati e trasformare interi settori industriali. Settore dopo settore, dall’acciaio al trasporto automobilistico, all’energia elettrica, si stanno verificando progressi sempre più significativi verso l’eliminazione delle emissioni.
La strategia alla base di queste iniziative ci indica il cammino da percorrere. Esse sono efficaci perché procedono indicando obiettivi ambiziosi che segnano la direzione del cambiamento auspicato. Ma riconoscono apertamente eventuali false partenze, poiché, all’inizio, non è possibile sapere quale sarà la migliore linea d’azione. Incoraggiano attività dal basso dando degli incentivi per l’innovazione a soggetti che conoscano a fondo i problemi del contenimento, i quali poi convertiranno le soluzioni in prassi standard da estendere a tutti. Ma rendono anche possibile la partecipazione dal basso ai processi decisionali, per garantire che le misure generali siano armonizzate in modo responsabile con le esigenze locali. Quando gli esperimenti danno buoni risultati, se ne deducono informazioni ed esempi pratici utili a modellare su nuove basi le politiche e gli investimenti, prendendo le distanze dagli interessi costituiti e avviandosi verso soluzioni ecologiche. I problemi globali vengono così risolti principalmente non con la diplomazia, ma creando nuove realtà, nuovi comparti industriali e gruppi di interesse che traggano concreto beneficio dalle innovazioni e spingano per continuare su tale binario.
Questo metodo di cooperazione sul cambiamento climatico è detto «governance sperimentalista». È in netto contrasto con quasi tutte le altre imprese diplomatiche (compreso l’Accordo di Parigi, importante ma sostanzialmente troppo debole) che non sono per ora riuscite a incidere in modo significativo sul riscaldamento globale. Gli artefici dei trattati globali sono partiti dall’idea che i pericoli fossero chiari e le soluzioni disponibili o facili da scoprire. Il vero problema, secondo il loro punto di vista (che spesso è anche l’unico che abbiamo), è la distribuzione dei costi di aggiustamento e la relativa mobilitazione dell’opinione pubblica.
Poiché tagliare le emissioni è costoso e ogni paese ha la tentazione di sfuggire alle proprie responsabilità e far ricadere i costi su altri, i diplomatici del clima hanno dato per scontato che nessun paese avrebbe collaborato se non fossero stati tutti vincolati da un identico impegno. La situazione veniva paragonata a quella di un gruppo di pastori i quali, pur sapendo che le loro greggi consumavano troppo rapidamente i pascoli in comune, consideravano sciocco ridurre il numero degli animali se anche gli altri non avessero fatto lo stesso. Da qui è derivato l’assunto che gli accordi sul clima dovessero essere di respiro globale e giuridicamente vincolanti. Ne è risultata un’azione globale incapace di superare i limiti imposti dalla meno ambiziosa delle parti in causa.
Quell’approccio non ha superato la prova del tempo, né l’ha superata quel paradigma per la soluzione del problema climatico. Ma soprattutto è sbagliato dare per scontato che le soluzioni siano facilmente disponibili. Le esperienze degli ultimi decenni, per esempio, con i veicoli elettrici, l’integrazione delle energie rinnovabili nella rete elettrica e il controllo degli inquinanti sul territorio, mettono in evidenza le difficoltà. Anche se ci sono soluzioni possibili, sono difficili da realizzare e richiedono cambiamenti profondi e coordinati in molti campi. C’è progresso solo se l’innovazione viene incoraggiata e orchestrata.
Da questa prospettiva, il primo problema che i pastori affrontano per non esaurire i pascoli non è accordarsi per suddividere gli oneri di un aggiustamento, ma rendere l’aggiustamento possibile collaborando alla selezione di una nuova razza di pecore che abbia bisogno di minor nutrimento e magari nuove specie di foraggio e modalità di pascolo. Se questa metafora coglie il senso del problema climatico, allora il modo migliore per costruire un consenso unanime efficace non è chiedersi chi si impegnerà a ottenere certi risultati stabiliti – quali che siano – ma piuttosto incoraggiare sistematicamente soluzioni a più livelli e poi condividere i risultati creando alternative sempre più efficaci. Gli impegni globali, assunti attraverso accordi diplomatici, dovrebbero essere la conseguenza di tale lavoro e non il punto di partenza.