Le differenze con l’UcrainaIl diritto di esistere di Israele non è subordinato al fatto che si comporti bene

C’è una differenza tra la riprovazione di cui è destinatario chi difende le ragioni di Kyjiv e quella che condanna chi difende il diritto degli israeliani di fare la guerra a quelli che vogliono distruggerli

(La Presse)

C’è una differenza tra la riprovazione di cui è destinatario chi difende le ragioni dell’Ucraina e quella che condanna chi difende il diritto di Israele di fare la guerra a quelli che vogliono distruggerlo.

Il primo, quello che propugna il diritto ucraino di resistere all’aggressione russa, e il dovere di sostenere fattivamente quel diritto, è vittima tutt’al più della propria condizione minoritaria a fronte del vasto schieramento che, da quasi tre anni, chiede agli ucraini di inchinarsi al dovere morale della resa e pretende di dare il nome di pace alla vittoria dell’aggressore. L’altro, quello che avversa l’andazzo comune secondo cui il diritto di Israele di difendersi si riduce a una formula verbale, vale a dire un diritto che cessa di essere tale se implica l’uso della forza necessaria a neutralizzare chi vuole distruggerlo, non soffre soltanto una condizione minoritaria: patisce infatti, ulteriormente e diversamente, l’accusa maggioritaria che lo fa complice della «reazione sproporzionata», della «punizione collettiva», del «genocidio».

Nel panorama del favore putinista e del pacifismo italianamente trasversale, quello cioè che equipara le responsabilità russe alle colpe dell’Ucraina asservita alle brame imperialiste della Nato, una nicchia di confortevole presentabilità è assicurata alla voce contraria: la voce pur sperduta, ma ancora legittima, che non transige sull’idea del mondo libero che si aggiudica la pace in quel modo, con i drogati e gli omosessuali di Kyjiv da sostituire con gente perbene e con la colonna sonora delle risate dei soldati russi che si danno il cambio negli stupri delle bambine ucraine.

Per Israele non funziona così. Chi non accetta il romanzo antisemita secondo cui ottocento ragazzi ebrei sarebbero caduti perpetrando un genocidio, anziché per difendere l’esistenza dell’unico e ultimo posto al mondo in cui gli ebrei non devono chiedere il permesso di vivere, è destinatario di un ostracismo radicale, nulla di neppure vagamente simile alle “riserve” democraticiste che isolano il difensore dell’Ucraina.

C’è una spiegazione, per questa differenza di trattamento. L’idea che l’ingiustizia dell’istanza sopraffattoria di cui sono destinatari gli ucraini sia in qualche modo da misurarsi sulle loro attitudini moral-democratiche è ben rappresentata dall’editorialismo vignettistico secondo cui Zelensky, servo degli Stati Uniti, chiude i giornali e scioglie i partiti, e forse nemmeno paga l’Imu, quindi l’operazione speciale non solo non viene dal nulla, ma dopotutto interviene su un Paese democraticamente immeritevole.

Ma, applicata al caso israeliano, quell’idea si attrezza di un argomento supplementare. Il difetto morale ucraino, manifesto nelle ambizioni di intruppamento nel satanismo capitalista occidentale e nell’asservimento del Paese ai disegni dell’espansionismo atlantista, nel caso di Israele risiede già nell’impianto laggiù della pretesa sionista e destituisce molto più che il diritto teorico degli israeliani di vivere in pace e sicurezza: revoca in modo irrimediabile il diritto degli israeliani di poter vivere senza chiedere il permesso a quelli che riconoscono loro il diritto di vivere a patto, nell’ordine, che abbiano un primo ministro suscettibile del gradimento altrui, a condizione che non abbiano un ministro che strizza l’occhio agli ultra-ortodossi, dunque sul presupposto che ammettano di aver creato a Gaza una prigione a cielo aperto e infine se, e fin tanto che, sono disposti a confessare di aver programmato e attuato la pulizia etnica della Palestina usando perfidamente lo scudo di giustificazione della Shoah.

Le legittimità delle rivendicazioni ucraine, e il diritto degli ucraini di non subire la grinfia russa, erano scrutinati dalle indagini inquirenti sulla villa in Versilia del presidente burattino degli Stati Uniti. Era ancora nulla, rispetto a ciò che si chiede a Israele e agli israeliani, cioè di meritare il diritto di esistere rinunciando a fare – e a vincere – la guerra contro quelli che vogliono spazzarli via dal fiume al mare.

Israele può comportarsi male, ma il suo diritto di esistere non è subordinato al fatto che si comporti bene. È un impedimento antisemita a non far comprendere la differenza. Ed è un impedimento che comanda il giudizio di molti. Quando si dice che «criticare Israele è legittimo» si confessa quel pregiudizio. Perché, infatti, non dovrebbe essere legittimo? La realtà è che sotto a quella dicitura – «critica a Israele» – c’è altro. Non la contestazione di ciò che Israele fa, ma di ciò che è. Del fatto che è.

X