Opera omniaIl metodo Simenon e l’ossessione per i dettagli editoriali dei suoi libri

Come spiega Matteo Codignola in “Il romanziere”, il successo dello scrittore belga non era dovuto solo alla sua geniale creatività, ma anche alla sua abilità di gestire tutti gli aspetti dei suoi romanzi e racconti: la data di uscita, il prezzo di copertina, o la presentazione alla stampa

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Quale diavolo fosse il segreto della sua cucina lo volevano sapere tutti, tanto che in realtà Simenon non si sentiva chiedere quasi altro. Fosse vissuto oggi, non avrebbe avuto bisogno di stilare una sua lista delle FAQ, perché le domande si riducevano a una, che non a caso qui cerca di prevenire: dove trova l’idea per un romanzo – s’intende, dove ne trova una al mese? Vistosi costretto, col tempo Simenon aveva escogitato una serie di risposte buone per ogni evenienza, che riusciva ogni volta a porgere come eleganti variazioni sul tema. 

Una delle più seducenti compare in un documentario degli anni Sessanta, quando tanto per cambiare gli viene chiesto, ma come nascono i suoi romanzi? Lì Simenon propone un breve racconto che si apre poco dopo l’alba del giorno in cui ha deciso di cominciare un nuovo libro, di cui nulla ancora sa. Vado sempre a fare una lunga passeggiata, sostiene, e può essere che arrivi in riva a un fiume, con due alberi avvolti nella nebbia e una luce che non mi sarei aspettato. 

Quindi, senza neanche rendermene conto, comincio a chiedermi che tipo di personaggio potrebbe trovarsi lì a quell’ora, in quella luce. E con chi potrebbe stare parlando, e cosa ci farebbero lì, quei due. Da lì in poi il resto, su cui Simenon sorvola, è relativamente noto. Come diceva Billy Wilder, quando un film l’ho pensato, poi mi resta solo la seccatura di girarlo. 

(…) Rispetto a un racconto così atmosferico, può essere che la ricostruzione offerta qui della medesima circostanza, e in particolare l’idea che una storia nasca, quasi sempre, dal banale riemergere di un volto, di un nome, del dettaglio di una strada o di un locale, appaia troppo scarna, troppo antieroica, in sostanza perfino troppo simenoniana: peccato che, per chiunque abbia anche solo una vaga nozione di cosa significhi scrivere narrativa, suoni ancora più verosimile. 

Piuttosto, Simenon sorvola su un passaggio in realtà essenziale del suo metodo, cioè tace sul fatto che in quell’osteria bretone, o normanna, ci fosse entrato per una ragione tutt’altro che casuale: perché sapeva che, mesi o anni dopo, avrebbe potuto usarla in un romanzo. La stessa ragione, quasi sicuramente, per cui era poi rimasto a guardare P’tit Louis vuotare bicchieri, e a un certo punto masticarsene uno. 

Il pubblico in sala avrà comunque apprezzato gli aspetti più romanzeschi di questo discorso sul romanzo, che non a caso si addensano nel finale. Ma la vera rivelazione della serata risale a vari minuti prima, cioè al momento in cui Simenon apre un breve, ma memorabile squarcio sull’arte minore cui si dedicava con una concentrazione maniacale – e un mestiere decisamente solido. Come altri colleghi altrettanto insospettabili, infatti (Orwell, mettiamo, o Céline), Simenon dichiarava sì un interesse esclusivo per la vita reale – qualunque cosa la strana espressione significhi – e gli infiniti spunti narrativi che offre: ma poi era solito discutere nei particolari, e spesso inventare, la veste editoriale più adatta alle sue storie, inclusi dettagli come la data di uscita, il prezzo di copertina, o la presentazione alla stampa. 

Parliamo dopotutto di un autore in grado di imporre scelte contrarie a tutte le convenzioni formali e tipografiche dell’editoria francese di allora, come quella di mettere, sulla copertina dei Maigret, una foto in bianco e nero. E non una foto qualsiasi, visto che dello scatto esigeva si occupassero giovani leoni di sua fiducia come Man Ray o Germaine Krull: per tacere del povero Doisneau, trascinato in luoghi impervi alla ricerca di diseredati adatti a stimolare l’acquisto d’impulso.

(…) L’occhio editoriale di Simenon non si fissava però solo su questioni di stile, o tecniche. Come dimostra lo straordinario frammento di dialogo con Fayard riportato qui, altrettanto peso avevano per lui temi come quello che ormai, purtroppo, chiameremmo il posizionamento sul  mercato. E il fatto insolito non è che a riguardo avesse le sue idee – ogni autore, spesso per disgrazia, ce l’ha: è che riuscisse, anche qui, a farle passare. 

Quando in aperta violazione del precetto di Colette propone a Fayard, il più grande editore popolare della Francia di allora, un upgrade molto ragionato del suo profilo di autore, il granduomo esprime giusto qualche riserva sulla capacità del suo interlocutore di consegnare quanto promesso nei tempi concordati (e come dargli torto, visti i numeri di cui stiamo parlando): ma circa il suo desiderio di avvicinarsi ai piani alti della letteratura, abbandonando una volta per tutte strada e portineria, non esprime obiezioni. Forse sapeva che nel comparto narrativa per dattilografe e sartine, in cui Simenon si era fin lì distinto, non mancavano i rimpiazzi, o forse era in soggezione davanti a un autore così prolifico e redditizio – ma non è il punto. 

(…) Il punto è che questo passaggio della conferenza, concepito per tutt’altre ragioni – celebrare il primo braccio di ferro andato a segno, un passaggio decisivo nella parabola di un autore di successo –, oggi rischia di indurre nostalgia per un mondo editoriale che non esiste più. Negli ottant’anni trascorsi da questa serata con l’autore, sartine e dattilografe si sono infatti estinte come ordini professionali, ma come categorie antropologiche, o dello spirito, godono di ottima salute, tanto che il mercato dei libri è modellato quasi per intero a loro immagine e somiglianza: e tenta, con un certo affanno, di anticiparne i desideri. 

Risultato, se oggi un autore come Simenon (ce ne fossero) si presentasse da un editore come Fayard (ce ne fossero) annunciandogli di voler abbandonare il personaggio che lo ha reso popolare, o di non volere più in copertina né figure di spalle in campo lungo, né primi piani di fanciulle tra le frasche, si sentirebbe rispondere di toglierselo dalla testa. E casomai chiedesse perché, se lo sentirebbe anche spiegare: perché in quel caso bisognerebbe affrontare una fuga di massa dal suo profilo social, un evento catastrofico che il marketing non sarebbe in grado di arginare.

Tratto da “Il romanziere” a cura di Matteo Codignola, Henry Beyle, 76 pagine, 30,00 euro

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