Ultranazionalismo palingeneticoL’illusione del passato, e il mito del futuro fascista

Dalla «sostituzione etnica» all’«ideologia del gender», l’estrema destra alimenta il panico sociale per ripristinare le gerarchie politiche. Alberto Toscano, in “Tardo fascismo” (DeriveApprodi), mette in luce i limiti delle analogie storiche convenzionali, sottolineando come l'ideologia di stampo autoritario sia un fenomeno in continuo mutamento, radicato nel capitalismo, e tutt'altro che superato

Il punto distintivo più evidente tra i fascismi del passato e i proto-fascismi del presente è forse di carattere temporale. L’abbinamento sempre più diffuso della retorica di un catastrofico declino nazionale con vaghe promesse di rinascita (il Maga – Make America Great Again, il partito Reconquête di Éric Zemmour, il feticcio di Vox per la Reconquista e così via), tenute insieme dall’individuazione di estranei colpevoli dell’alienazione generale, ha portato molti analisti dell’estrema destra contemporanea a riprendere la definizione di Roger Griffin del fascismo come «ultranazionalismo palingenetico». Non c’è dubbio che sul discorso dell’estrema destra contemporanea, intimamente adombrato da narrazioni razziali di vittimismo bianco e da fantasie terroristiche revansciste, incomba il leitmotiv del declino, della decadenza, del degrado, della sconfitta e dell’indigenza dei radical-conservatori. Tuttavia, esistono dei veri e propri marcatori della differenza tra le nostalgie autoritarie e il fascismo vero e proprio?

Nel Ventesimo secolo uno dei tratti distintivi del tempo nel fascismo, che ha tenuto a distanza molti sostenitori della tradizione, è stato il rapporto con il passato, che ha assunto come punto di partenza la negatività radicale della crisi vissuta, la sconfitta della nazione, la scomparsa della tradizione, la corruzione della razza. Se un passato doveva essere riconquistato, lo era solo in un futuro radicalmente rivoluzionato.

Harootunian ha discusso con particolare chiarezza questa situazione: «Le concezioni fasciste della temporalità non trovavano più fondamento nel passato, questo era spesso tatticamente ridefinito in altre concezione della modernità che rivendicavano la liberazione dai fardelli del passato. La politica del tempo incorporata nella modernità riguarda il modo in cui le società moderne affrontano la questione del passato nel presente e il modo in cui scelgono di riconoscerlo o di disperderne la forza. La percezione dell’indeterminatezza di un presente empirico e di un passato assente che viene costantemente richiamato e mescolato con il nuovo costituisce non tanto una resistenza alla modernità, quanto la condizione principale di ciò che significa diventare moderni».

Scrivendo a metà degli anni Trenta, Henri Lefebvre ha colto questa propensione modernista del fascismo, sconfessata dalla maggior parte dei suoi fautori, nella dialettica negativa tra l’ultranazionalismo nazista e l’esistenza della nazione tedesca. Scorgeva, nell’esplicito ricorso al registro mitico da parte di ideologi nazisti come Alfred Rosenberg (che polemizzava contro i sostenitori di una Realpolitik imperialista), la convinzione che la Germania non è mai esistita e può essere fatta solo attraverso una violenza sacra e ideale, e che non esiste una nazione che precede il lavoro insanguinato del soldato politico e del condottiero ariano. È, in definitiva, un’affermazione per cui la razza stessa è una leggenda, mentre la nazione è «completamente feticizzata».

Per far funzionare l’«idea nazionale» dell’ultranazionalismo nazista, la nazione non deve ancora esistere. Il mito di un passato impossibilmente distante, smentito da un presente corrotto e recuperabile solo in un futuro rivoluzionario, definisce una temporalità specifica governata da un progetto violento di purificazione di sé e di sterminio dell’altro. La convinzione prevalente che «la Germania non è, è fatta» giustifica la cancellazione di ogni comunanza e differenza realmente vissuta, sacralizzando una nazione razziale che verrà in un «futuro fugace, ma terribilmente esigente». Tutto ciò che è culturalmente solido si scioglie nel futuro della rivoluzione razziale […].

L’analisi di Peter Osborne sulla politica del tempo insista nel fascismo ci aiuta qui a coglierne l’orientamento futuristico, anche negli aspetti più apparentemente nostalgici o arcaici. Per Osborne, il fascismo (incluso il nazionalsocialismo) può essere meglio compreso se visto come una variante dell’ideologia controrivoluzionaria della rivoluzione conservatrice, che a sua volta può essere colta con la formulazione di Jeffrey Herf di modernismo reazionario, con l’importante avvertenza di non trattarla semplicemente come una contradictio in adjecto ma di considerarla invece come «la temporalità modernista della reazione per sé una volta che la distruzione delle forme tradizionali dell’autorità sociale ha superato un certo punto […]. Dal punto di vista della struttura temporale del suo progetto, il fascismo è una forma particolarmente radicale di rivoluzione conservatrice. Il nazionalsocialismo era un’avanguardia reazionaria. È qui che risiede la sua pertinenza alla comprensione della modernità come temporalizzazione della storia».

[…] Osborne delinea la struttura temporale del fascismo come variante della rivoluzione conservatrice con lo scopo di chiarire filosoficamente come l’adesione di Heidegger al nazismo (e il suo orientamento metapolitico prima e dopo il 1933-34) possa essere compresa in quanto conseguenza di una soggiacente politica del tempo. Opportunamente, Osborne sottolinea che Heidegger, nonostante la sua distanza dottrinale da rivoluzionari conservatori come Carl Schmitt, Ernst Jünger o Oswald Spengler – o la contrapposizione tra il suo «nazionalsocialismo spirituale» di Friburgo e il biologismo razziale nazista –, condivideva con i nazisti e i rivoluzionari conservatori un orizzonte storico-temporale, vale a dire «una valutazione della situazione storica mondiale come crisi e declino, una definizione nazionalista della sua forma politica (rivoluzione conservatrice come rivoluzione nazionale) e una speranza di futuro fondata su una temporalità di rinnovamento rivoluzionario del tutto particolare».

Osborne sostiene in modo convincente che la struttura temporale del nazismo come modernismo politico e quella affine, seppure irriducibile, del modernismo filosofico di Heidegger possono entrambe fornire importanti chiavi di lettura della politica della reazione, non da ultimo nei termini di una contraddizione temporale performativa che contraddistingue il modernismo reazionario in quanto tale. Questo «cattivo» modernismo è afflitto dalla «contraddizione interna alla sua struttura temporale». 

Come sostiene Osborne:
«Questa struttura – la struttura della reazione radicale all’interno e contro la modernità – è necessariamente contraddittoria, poiché una delle cose che mira a rovesciare è la produzione della stessa temporalità a cui è soggetta. La reazione radicale non può che riprodurre, e quindi affermare in modo performativo, la forma temporale di ciò a cui si contrappone (la modernità). Da qui la necessità di rappresentare in modo distorto la propria struttura temporale, come una sorta di «recupero» o «ritorno».

Al contrario, definendo le condizioni di possibilità della storicità del Dasein nella modalità del metodo marziale della «decisione anticipatrice», Heidegger rivolterà «la temporalità della modernità contro se stessa, combinando un senso di futurità come essenza dell’esistenza (trascendenza finita) con l’idea di destino, per produrre un punto di vista radicalmente reazionario». Per Osborne, il punto di vista reazionario non deriva da mero decisionismo (che allineerebbe Heidegger con Schmitt nella categoria degli «esistenzialisti politici»), ma dal concetto specificamente temporale di ripetizione avanzato in Essere e tempo. È qui che la storicità si trova surrettiziamente sottoscritta e sovradeterminata dall’ideologia della storia nazionale:

«La nozione di storicità di Heidegger narra la decisione come una ripetizione: la ripetizione dell’eredità di un popolo. In questo modo, fornisce al Dasein una forma di identificazione storica con un significato politico definito. Nella storicità autentica, il possibile ricorre sempre (e solo) come possibilità di ripetere il passato […] il presente è narrato come crisi e declino (perdita di senso del vivere), mentre il futuro appare nell’orizzonte di un «ritorno a un nuovo inizio». […] È nella mappatura di una specifica narrazione nazionale (e nazionalistica) fondata sul significato originario della struttura esistenziale della decisione attraverso la ripetizione, che si trova la politica dell’Essere e tempo».

L’ontologia si esprime temporalmente come ontologia nazionalista. La nazionalizzazione dell’essere e del tempo – insieme alla sua religione marziale-sacrificale della morte – supererà la disillusione di Heidegger nei confronti del nazionalsocialismo realmente esistente. Ciò è evidente, ad esempio, nelle osservazioni conclusive delle sue lezioni del semestre estivo del 1943 su L’inizio del pensiero occidentale: Eraclito.

«In qualsiasi modo si possa configurare l’estremo destino dell’Occidente, incombe ora sui tedeschi l’esame più grande e decisivo, quell’esame in cui forse essi, contro la loro volontà, vengono esaminati da coloro che sono sprovvisti di sapere, per vedere se essi stessi — i tedeschi — siano in accordo con la verità dell’essere, per vedere se essi, oltre a esser pronti per la morte, siano anche sufficientemente forti per riuscire a salvare, contro la meschinità di spirito del mondo moderno, l’iniziale [das Anfàngliche] nel suo inappariscente ordinamento».

Un’ulteriore dimensione di ciò che Osborne chiama «la surdeterminazione dell’ontologico da parte dell’ontico», della filosofia da parte di una variante sui generis dell’ultranazionalismo palingenetico, è stata approfondita in modo avvincente da William Altman nel suo studio di Essere e tempo come orazione funebre per i caduti tedeschi della Prima guerra mondiale. Altman prende spunto da un significativo discorso che Heidegger ha pronunciato in occasione del raduno per il venticinquesimo anniversario del suo ginnasio a Costanza, incentrato sui compagni di classe caduti nella guerra del 1914-18 e soffuso delle categorie temporali di Essere e tempo.

Mentre l’ontico avanza nella figura della Frontgemeinschaft (comunità del fronte) e del suo cameratismo, la decisione anticipatrice trova una sorta di «contenuto» retroattivo non semplicemente in una nazione o un Volk mitico ma nella la stessa comunità combattente a cui Heidegger non aveva aderito, nella chiamata a cui non aveva dato ascolto. Il passato empirico e la fattualità storiografica del conflitto sono ciò che deve essere superato, per recuperare la storicità dalla mera storia. 

Tratto da “Tardo fascismo” (DeriveApprodi) di Alberto Toscano, pp. 224, 18,00€

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