Bologna Pro PalL’imbrattamento antisemita come ragazzata ci ricorda, ancora, quanto è banale il male

L’attacco alla sinagoga è stato commentato con il solito distinguo, ma se la pratica teppistica dello sfogo giovanile si giudica equiparando l'insulto calcistico allo slogan contro gli ebrei, il segnale è dei peggiori

ANSA/ANGELO CARCONI

Chiunque dovrebbe capire che se una sinagoga viene presa di mira in un quadro di normalità e fungibilità teppistica non significa che l’azione è priva di tratti antisemiti. Significa l’opposto, e cioè che l’aggressione antisemita rientra nelle normali e fungibili manifestazioni del teppismo. Significa, per capirsi, che imbrattare una casa qualsiasi con una scritta triviale qualsiasi è come disegnare una stella sulla casa di un ebreo.

Per questo erano ripugnanti certe puntualizzazioni a proposito dei disordini bolognesi che si sono sfogati anche contro la sinagoga della città. A parte l’ignobile e routinaria reazione negazionista, la stessa che negava il carattere antisemita della caccia all’ebreo per le strade di Amsterdam, a parte il cosiddetto genocidio di Gaza puntualmente evocato a minimizzare qualche sfregio dopotutto innocuo a un vecchio muro, c’è – ed è anche peggio – la fantastica idea secondo cui il bruto che colpisce una sinagoga avrebbe potuto prendersela alternativamente con la vetrina di un pub o con un lampione della luce: dunque di quale antisemitismo si va cianciando?

Lasciamo pur perdere il fatto che i ragazzotti di Bologna – nonostante le dichiarazioni negatorie del sindaco Lepore, lo sbandieratore pro-pal – abbiano avuto cura di intestare la loro opera alla “giustizia per Gaza”. Lasciamolo perdere perché, anche senza una simile rivendicazione, si sarebbe trattato di quel che era, appunto la presa di mira di un luogo ebraico. Un gesto la cui gravità non dovrebbe essere giudicata e condannata osservando che a fare le spese di quella violenza poteva essere invece la panchina di un giardinetto o una macchina parcheggiata.

Perché può anche darsi che per il teppista in questione non faccia troppa differenza scrivere su un muro “W la figa” o “Ebrei di merda”, ma il problema sta appunto nel fatto che per lui è uguale. Ma non è uguale perché è un teppista: è uguale perché nel posto in cui sta, nella società in cui vive e che sorveglia e giudica i suoi gesti, l’ordinaria espressione postribolare sta al rango della frase di stampo genocidiario.

La realtà e dunque quest’altra. Il fatto che il gesto antisemita appartenga all’ordinarietà di un generico sfogo violento non attenua ma aggrava la portata maligna sia di quel gesto, sia del giudizio che lo assolve in una inqualificata vaghezza delinquenziale.
Perché se la pratica antisemita diventa una voce qualsiasi del curriculum del piccolo delinquente – al pari della rissa, del danneggiamento, della molestia – allora vuol dire che il pregiudizio antisemita, tutt’al più, entra alla rinfusa nel gruppo delle cose vietate dalla legge ed esce, se mai vi ha fatto ingresso, dalla zona protetta dallo stracco “mai più”.

 

X