Avevano ragione per ragioni opposte a quelle che propugnavano coloro i quali, sulla notizia degli ordini di arresto nei confronti di Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant, reagivano con sdegno alla denuncia secondo cui si sarebbe trattato di una giustizia alla Dreyfus, insomma giustizia antisemita. Era effettivamente un paragone inesatto. La giustizia dell’Aia non era come quella che pretendeva a suo tempo di scaricarsi sul presunto traditore ebreo: era peggiore. Ed era peggiore già solo per il fatto che veniva dopo il caso Dreyfus, rendendo evidente che l’ingiustizia di quella più antica giustizia non era servita da monito affinché il pregiudizio antisemita rimanesse almeno estraneo all’ambito giudiziario.
Ma a rendere anche più odiosa e pericolosa la giustizia antisemita odierna – ramificata, come vedremo, ben oltre le sedi delle assise internazionali – è il fatto che non c’è, a contrastarla, l’atto di accusa di Émile Zola: c’è a salutarla, in orgasmo, il premier norvegese che si frega le mani all’idea di arrestare i due indagati e c’è la pletora gius-pacifista a proclamare che «le sentenze» (cioè le manette) «si rispettano». E pace se la “carestia” e il “deliberato sterminio” su cui primariamente si fondava la richiesta di arresto dei due leader dello Stato ebraico stavano esattamente, per inconsistenza, sul piano della cospirazione imputata all’ufficiale ottocentesco. E peggio era l’argomento di rincalzo, cioè quello secondo cui intanto bisognava assicurarli alla giustizia e poi si sarebbe accertato se erano esistenti i delitti loro attribuiti. Giudicheremmo buono, ora, l’identico argomento nel caso di Alfred Dreyfus?
Ma la giustizia contaminata di pregiudizio antisemita è poi quella che, da quei collegi nordici, si fa vernacolare nella richiesta di archiviazione che un magistrato italiano formula in favore dell’antisemita il quale – magari un po’ maleducatamente, ma dopotutto in modo intangibile – insulta una novantaquattrenne sopravvissuta ai campi di sterminio. Vale a dire l’ebrea adibita a sputacchiera da quelli che, nel quadro di un «dibattito perfettamente legittimo», esercitano il proprio diritto di «critica» consistente nel rinfacciarle il presunto genocidio e le violenze dei coloni. Il tutto, sul presupposto che quella violenza diffamatoria (ricorda qualcosa?) non viene dal nulla ma, innegabilmente, promana piuttosto da «personali opinioni» e da «impegno pubblico» che il diffamatore «portava avanti con molteplici manifestazioni a favore della causa palestinese». In pratica, l’illiceità o no di una molestia violenta ai danni di un’anziana ebrea “dipende dal contesto”.
Un contesto, si apprende, di cui fa parte anche la circostanza abbastanza incresciosa che la signora in questione è una parlamentare, vale a dire una persona che ben avrebbe potuto – ma colpevolmente ha deciso di non farlo – compiacere il diffamatore bardandosi di kefiah e incatenandosi davanti a Palazzo Madama gridando «fuori i sionisti da Roma». Al che, forse, avrebbe potuto ambire a non essere diffamata e, se diffamata, a trovare un magistrato disponibile, nel diverso contesto, a non archiviarne le ragioni.