Vi racconto quanto mi è capitato diversi anni fa, a passeggio fin dal mattino, in un giorno a ridosso della fine d’anno, in cui mi trovavo – assai inusualmente per me – lontano dal mio laboratorio. Intorno a me la gente correva, come è solito nelle abitudini milanesi, ma in quei giorni in cui Natale è appena trascorso, correvano proprio tutti, presi da un’allegra frenesia. Si respirava aria di festa, di quell’euforia pagana che si vive con i preparativi del Capodanno e pure io ne ero pervaso, anche se il motivo di fondo, nel mio caso, era un altro.
Sentivo un grande tumulto nel cuore e una moltitudine di domande sollecitare la mia mente, per cui mi sono imposto di camminare, per calmarmi. Il pensiero, ricorrente ormai, ha preso forma, rivelandosi: avrei voluto diventare parte del cuore pulsante di questa città, esprimere qui la mia professione. È in piazza del Duomo, che ho maturato quest’idea, qualche tempo fa; si è fatta strada dentro di me come un pensiero affascinante, una visione celestiale, tanto che ho subito pensato che dovette provare qualcosa di simile anche Dante, quando incontrò Beatrice. Nel mio caso non si è trattato di un incontro amoroso, ma di una presa di coscienza, di un sentire che dentro di me stava crescendo e che con il tempo ho programmato.
Non fu quella la mattina decisiva, non per questo progetto; eppure, mentre i miei occhi si soffermavano a osservare la luce che filtrava dalle vetrate policrome del Duomo, mi tornò alla mente una storia d’amore che avevo già sentita, quella del maestro vetraio che le stava realizzando, la cui figlia si innamorò di un suo assistente, soprannominato Zafferano, perché aveva l’abitudine di miscelare questa spezia in ogni colore. I suoi amici, compagni di lavoro, decisero il giorno delle nozze di fargli uno scherzo feroce e durante il pranzo aggiunsero al riso in cottura, per l’appunto, dello zafferano. E fu così, per una burla, che prese forma il piatto simbolo della città, il risotto alla milanese, o almeno così narra il racconto.
Questa storia mi ha sempre divertito e incuriosito, al punto che quella sera fu proprio un risotto a decidere la riuscita dei miei «progetti milanesi»; sì, perché avevo strappato un appuntamento a un noto personaggio locale, promettendogli un risotto pari a quello dell’aneddoto che gli avevo raccontato al telefono. Ecco, quindi, che mi sono ritrovato a camminare per la città, guardandola con occhi nuovi: il mio era un passeggiare diverso da quello consueto e affannato, andavo alla ricerca di angoli segreti e momenti magici. Lungo le strade illuminate a festa, anche se la giornata era umida per la scighera (quella leggera nebbia che rende tutto quasi inconsistente), scoprivo una città ricca di un fascino che, prima, i miei occhi non riuscivano a cogliere.
Mi aggiravo fra velluti purpurei, lampade scintillanti, pregiate argenterie e specchi fumé; un allegro e sorridente Babbo Natale, fredda scultura di gelato, ammiccava verso di me insieme a tanti altri personaggi natalizi sacri e pagani. Trionfi di abiti da sera e di tavole imbandite invitavano a entrare nei negozi: ero nel dovizioso quadrilatero della moda ed era proprio lì che fissai il mio appuntamento tanto atteso, ma, come in un romanzo ricco di colpi di scena, la persona che dovevo incontrare, nel tragitto scivolò su una lastra di ghiaccio e fu ricoverata in ospedale per una frattura al braccio.
Il mio sogno si infranse su quella lastra, anzi scivolò insieme a lui, allontanandosi nel tempo senza tuttavia lasciarmi mai. Però Milano mi aveva stregato e, seppur con circa trent’anni di ritardo, quel sogno oggi è diventato realtà. «Milan, l’è Milan!».