Sanzioni contro l’AiaCosì gli Stati Uniti hanno dato una lezione di giustizia alla Corte Penale Internazionale

La Camera dei Rappresentanti americana ha sanzionato il collegio dell'Aia per il suo approccio antisemita contro Israele. Una scelta condivisibile, perché la giustizia non si deve accettare acriticamente in base alla sua fonte, ma valutata nel merito per garantire che non diventi faziosa

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Gli stolidi osservatori in perimetro Grande Raccordo Anulare che si erano inchinati davanti agli ordini di arresto emessi dalla Corte Penale Internazionale invocando il rispetto che, a prescindere, si deve a qualsiasi espettorazione togata, avranno materia di rimugino gius-democratico ora che the House, la Camera dei Rappresentanti del Congresso statunitense, ha approvato sanzioni contro i membri e il prosecutor di quel collegio dell’Aia.

L’idea che neppure, ancora, una sentenza – che non è un monito oracolare prestato a fideistica adorazione – ma già un ordine di arresto debba passare per l’incensurabile costrutto della giustizia che merita rispetto, rappresenta molto bene l’atteggiamento incivile e culturalmente involuto del forcaiolo secondo cui la dignità del provvedimento giudiziario non dipende dal contenuto per cui si segnala, ma dall’autorità di chi lo emette. Da «c’è scritto sul giornale» a «lo dice la Corte».

Di modo che bisogna che la giustizia faccia il suo corso, perché c’è la rule of law, signori miei, e pace se la richiesta di arresto di Benjamin Netanyahu e di Yoav Gallant poggiava pressoché esclusivamente su menzogne e dati falsi sulla presunta carestia. Pace se quel prosecutor, che ha affastellato ciarpume di cui l’omaggiatore della Corte non si occupa, spiega poi che sì, lo sa che ci sono documenti rivolti a certificare la falsità dei dati si cui si basava la richiesta di arresto, ma lui non aveva l’obbligo di sottoporli alla Corte in quella fase (prima ti ammanetto, poi si vede).

Pace, ancora, se la Corte, in fase pre-dibattimentale, spiegava che nel pacco di imputazioni messo insieme dal procuratore Karim Khan per dimostrare la fondatezza dell’addebito di sterminio e violazione dei diritti umani ha potuto trovare solo due (due!) casi di incidenti documentati. Dice «Eh ma poi ha emesso gli ordini di arresto, quindi…». Quindi vuol dire che le prove erano sufficienti lo stesso, giusto? E come no! S’è mai visto un giudice che accoglie o convalida una richiesta di arresto senza che ce ne fossero gli elementi? Mai! 

Si potrà dire che gli Stati Uniti non sanzionano quella cupola antisemita sulla base di una ricognizione del merito processuale, ma per motivi diciamo così politici. Certo. Ma sono esattamente i motivi per cui i nostri prostrati all’autorità di quella vergogna di assise avrebbero dovuto astenersi da tanto sussiego manipulitista. Se un organo giurisdizionale è, o diventa, la centrale di incriminazione del diritto del popolo ebraico di difendersi da chi vuole distruggerlo, tu non fai il tributo alla giustizia che vale per tutti: perché non è giustizia e non vale per tutti. Se queste istanze della giustizia internazionale diventano – come diventano – il fronte giudiziario della guerra condotta da Hamas e dagli Stati-canaglia contro lo Stato degli ebrei, tu ci ragioni e non fai i discorsi da liceale girotondino secondo cui non c’è pace senza giustizia: perché è la pace dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei Profughi Palestinesi in Medio Oriente che insegna ai bambini a uccidere gli ebrei ed è la giustizia dell’Onu secondo cui il 7 ottobre non viene dal nulla.

E se c’è un Paese, gli Stati Uniti, che non tiene bordone a quella brutta gente riunita in inquisizione antisemita, e la sanziona, stai con quel Paese e contro quella brutta gente. Perché i tribunali c’erano anche in Unione Sovietica e nel Terzo Reich, e ci sono anche nella democrazia delle impiccagioni.

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