Appello per l’Italia solidaleUn fondo per evitare che il settore non profit sia travolto dall’emergenza coronavirus

Non dobbiamo aspettare di avere l’acqua alla gola. Quando torneremo alla normalità, sarà necessario un recovery fund che assista le organizzazioni colpite. Magari con un prelievo una tantum dell’1 per mille sui patrimoni superiori al milione di euro

MIGUEL MEDINA / AFP

A modo nostro, ma sta succedendo. Ci siamo sempre considerati indisciplinati e anarchici, nel nostro stesso giudizio prima ancora che in quello degli altri. Eppure, dopo aver finalmente capito qual è la posta in gioco (è vero, non è stato immediato capirlo, ma i messaggi all’inizio sono stati alquanto confusi) in pochi giorni ci siamo adeguati a una condizione innaturale di isolamento domiciliare. Sorprendentemente, accettiamo severe limitazioni alla nostra libertà non perché obbligati con la forza ma per senso di responsabilità. Sentiamo che è la cosa giusta da fare perché altrimenti il contagio non si ferma. Lo facciamo nel nostro interesse, certo, ma anche nell’interesse degli altri: dei nostri anziani, di parenti e amici, così come di sconosciuti ai quali oggi ci sentiamo legati da una vulnerabilità comune che non può essere affrontata da soli.

È emersa un’Italia del senso civico di cui ci eravamo dimenticati. “Io sto a casa” è il contrario di una fuga nel privato. Ci stringiamo attorno agli operatori sanitari, i cui volti distrutti dalla fatica sono le icone di questo tempo. Cantiamo dai balconi per sentirci vicini e darci coraggio a vicenda. Di finestra in finestra stiamo trasformando la segregazione casalinga in un’occasione di socialità. Isolati ma solidali, perché così sentiamo di contribuire ad uno sforzo collettivo per reagire all’emergenza.

Quando serve gli italiani sanno reagire. Solo, non dovremmo aspettare di avere l’acqua alla gola. Così come dovremmo non dimenticarcene quando la crisi è superata. Ora siamo in emergenza sanitaria, e tutti gli sforzi devono convergere per superarla. Ma seguirà l’emergenza economica e dobbiamo prepararci anche a quella. Vedremo aumentare esponenzialmente le fragilità sociali e il numero di quanti saranno in condizione di bisogno. Per la perdita del posto di lavoro, per un’economia in recessione.

Quando ci troviamo di fronte a un’epidemia, come in questi giorni, ci rendiamo conto che non possiamo cavarcela da soli e ci rivolgiamo allo Stato (e il sistema sta rispondendo con tutte le sue risorse). Ma più avanti, quando torneremo alla normalità, sarà necessaria una rete più ampia di solidarietà. Dobbiamo evitare che, quando ne avremo più bisogno, il mondo del non profit italiano sia assente all’appello perché travolto dalla crisi. In queste settimane il lavoro di migliaia di organizzazioni che si prendono cura delle persone più fragili, degli anziani soli, di minori e famiglie a rischio, è limitato dalle restrizioni dovute a Covid-19. L’impatto sul non profit dell’interruzione dei servizi e del mancato accesso degli utenti può essere disastroso e minacciarne la sopravvivenza.

L’emozione oggi sta concentrando la raccolta fondi sulle esigenze della sanità e della prima assistenza. La risposta di individui e aziende è formidabile: le donazioni si susseguono a ritmo serrato e coinvolgono una platea amplissima. Quando faremo un bilancio probabilmente i numeri diranno che mai prima la generosità dell’Italia si è mobilitata di più per contribuire con risorse private ad affrontare l’emergenza. Dovremmo anche preoccuparci però di tenere in vita un sistema di volontariato e imprese sociali che nel post-emergenza sarà più che mai fondamentale. Una società si giudica da come tratta le persone più vulnerabili. Utilizziamo allora questo momento per far durare più a lungo l’onda di senso civico, profondamente sociale, creando le condizioni per far ripartire il prima possibile tutto il mondo del non profit.

Una proposta immediata è creare un fondo che assista le organizzazioni non profit per aiutarle a superare questa fase. Si potrebbe replicare l’esperienza del “Non Profit Recovery Fund”, creato a New York da tutte le principali fondazioni filantropiche dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. Con quelle risorse si diede un sostegno a fondo perduto ai bilanci delle organizzazioni senza scopo di lucro che avevano subito perdite a causa dell’emergenza. Contributi liberi, non vincolati a progetti o procedure complesse. Basati sull’analisi dei bilanci e sulle potenzialità di ripresa. Potremmo fare lo stesso, subito, con il contributo di fondazioni e imprese. Con una visione che corregga gli squilibri tra territori e la frammentazione degli interventi. Non in tutte le aree del nostro Paese sono presenti robuste organizzazioni filantropiche e grandi imprese: un fondo nazionale sarebbe un correttivo necessario.

Ma il vero salto di scala sarebbe nell’alimentare il Recovery Fund anche con un contributo di solidarietà a valere sulla ricchezza privata. In Italia, per avere un ordine di grandezza, il private banking e il wealth management hanno in gestione 912 miliardi di euro per conto di circa un milione di clienti facoltosi. Se dai patrimoni superiori al milione di euro fosse prelevato l’1 per mille una tantum si potrebbe creare un fondo di dimensioni sufficienti a un’azione di impatto significativo. Questa “donazione obbligatoria” (da accompagnare con uno sgravio fiscale) – non cambierebbe certo in peggio la vita di chi possedendo un patrimonio finanziario di un milione di euro si priverebbe di mille euro per dare una mano a tenere in piedi il non profit italiano. Sarebbe un’azione coraggiosa e lungimirante. Un atto civico per capitalizzare, prolungandone gli effetti, il senso di solidarietà che avvertiamo in questi giorni.

Kater Com’era il rock oltre il muro di Berlino

La Repubblica Democratica Tedesca è l’esempio perfetto dei diversi modi in cui la musica popolare può assumere rilevanza politica. Lo Stato aveva non solo il monopolio sulla formazione e sull’organizzazione degli eventi, ma anche sulla diffusione delle canzoni in radio e in tv

REINHARD KAUFHOLD / DPA / AFP

La musica, intesa come l’intero processo di circolazione nel sistema di relazioni musicali, può diventare politica in molti modi diversi – può acquisire rilevanza politica se usata in modo politico. Ma la musica popolare è allo stesso tempo sia un prodotto estetico che il risultato di processi politici. Di conseguenza, in alcuni regimi particolari chi governa può influenzare la creazione e la ricezione della musica attraverso la censura o la promozione di certi stili, l’assegnazione di frequenze radiofoniche, sistemi di quote per la musica straniera, limitazioni alle esibizioni live, e altro ancora. La Repubblica Democratica Tedesca è l’esempio perfetto dei diversi modi in cui la musica popolare può assumere rilevanza politica.

La vita culturale nella DDR è stata caratterizzata fino alla fine da una forte istituzionalizzazione, che cercava di regolamentare e controllare tutto in nome dell’immagine socialista dell’essere umano. La musica non veniva giudicata con criteri di mercato ma su base ideologica, poiché l’arte era intesa (dalla SED, il partito di governo) come una vera e propria arma nella lotta di classe.

Come ha scritto il musicologo Michael Rauhut, la storia del rock nella DDR è la storia di una capitolazione davanti allo strapotere dell’Occidente, segnata da opportunismo e schizofrenia. Anche i trend più combattuti venivano presto o tardi canonizzati ed incorporati dalla burocrazia, dal momento che il loro reale impatto nella vita quotidiana non poteva essere ignorato. L’avvento dell’era beat nei primi anni Sessanta fu accolta dapprima con favore dalla politica (cioè dalla SED), perché la massiccia diffusione della chitarra corrispondeva formalmente al sogno di un «movimento artistico popolare». Questo tipo di musica, definito Gitarrenmusik, inizialmente venne addirittura sostenuto dalla FDJ (Freie Deutsche Jugend, “Libera Gioventù Tedesca”, l’organizzazione giovanile della SED) anche tramite concorsi per musicisti e trasmissioni dedicate su DT64, l’emittente radio “ufficiale” per i giovani. Questo clima di apertura però cambiò rapidamente: i leader del regime temevano di perdere il proprio monopolio statale sulla cultura, dal momento che i giovani in questa musica cercavano una forma di autodeterminazione culturale. I giovani facevano musica autonomamente, senza controllo statale, sebbene fin dal 1957 fosse necessario un permesso speciale per suonare musica leggera e da danza – inclusa ogni forma di musica popolare o folk.

Fondamentale per lo sviluppo della musica rock nella DDR fu l’undicesimo Congresso del Comitato Centrale della SED, nel 1965. In quell’occasione Erich Honecker – all’epoca non ancora Segretario Generale e vertice della piramide ma responsabile del dipartimento della sicurezza, che teoricamente nulla aveva a che fare con cultura e ideologia – attaccò duramente la politica di promozione della cosiddetta Gitarrenmusik sostenuta tra gli altri dalla FDJ, in quanto incompatibile con l’ideale socialista dell’essere umano. Il nemico capitalista sfrutta questo tipo di musica e i suoi ritmi accelerati per spingere i giovani agli eccessi e per insinuare la decadenza occidentale nei loro pensieri e nelle loro azioni.

Come già detto, non si trattava tanto di giudizi estetici, quanto piuttosto del fatto che la musica rock era in grado di rivolgersi con mezzi molto elementari (ad esempio, era piuttosto facile trasformare una radio in un amplificatore per chitarra) a una platea molto ampia, fatta soprattutto di giovani. Il comportamento dei fan, in particolare la formazione spontanea di gruppi nel tempo libero, veniva visto come un attacco diretto all’autorità dello stato, perché si intravedeva la minaccia reale di perdere il controllo su qualcosa che si voleva invece tenere saldamente in pugno: lo sviluppo della gioventù al di là della scuola e del lavoro. C’era in ballo la creazione di una sfera pubblica situata al di fuori del dominio dello stato.

Dopo l’undicesimo Congresso ogni forma di supporto ufficiale alla beat music si interruppe, e la FDJ cercò di sviluppare un’alternativa alla Gitarrenmusik attraverso il progetto del Singebewegung (una specie di cantautorato), che avrebbe dovuto rappresentare un sostituto artisticamente valido ma in accordo ai requisiti ideologici della DDR. Quando però divenne chiaro che le misure restrittive del governo non erano in grado di arginare il fenomeno della schädliche (“deleteria”) musica rock, essa venne in qualche modo riconosciuta ufficialmente nel 1971 con la creazione della cosiddetta Jugendtanzmusik (letteralmente “musica giovanile da ballo”) quale legittima attività culturale per la gioventù, inclusa nella produzione culturale socialista. Il rock socialista aveva ora il compito di contribuire all’educazione dei giovani, di fungere da modello.

Venne messo in moto un enorme apparato burocratico, che si occupava di promuovere o censurare. Nel 1973 fu fondato il Komitee für Unterhaltungskunst («Comitato per l’arte e l’intrattenimento»), incaricato di controllare i musicisti e i contenuti delle loro composizioni, ma anche di sostenerli. Inoltre, al di sotto del livello centrale di coordinamento si estendeva una sterminata rete di sottocomitati ed enti competenti, anch’essi deputati a controllare e indirizzare la musica rock. La realtà però era ben diversa, dal momento che le autorità con la loro ossessione pianificatrice si mettevano sempre in mezzo.

Il controllo era assicurato da un ampio ventaglio di misure. Innanzitutto era necessario un permesso speciale emesso dallo stato per esibirsi in pubblico – la musica di strada come espressione spontanea era proibita, in quanto troppo difficile da gestire. Questo permesso veniva rilasciato da una commissione in base a criteri politici di «popolarità in senso estetico e formativo» e di «rilevanza sociale»; per essere registrati come musicisti professionisti bisognava inoltre possedere un certificato di formazione musicale nell’ambito della Tanzmusik, altrimenti si rimaneva dilettanti. La registrazione come musicisti professionisti garantiva compensi adeguati e altri vantaggi, e ottenere il permesso era di cruciale importanza: dopotutto, i concerti dal vivo erano la principale fonte di reddito per chi suonava. Lo stato aveva poi il monopolio non solo sulla formazione e sull’organizzazione degli eventi, ma anche sulla diffusione della musica in radio e in tv. La distribuzione era in mano alla VEB Deutsche Schallplatten, con l’etichetta Amiga dedicata al rock.

Continua a leggere su Kater,un blog collettivo che parla di Germania – o almeno ci prova – al di là di semplificazioni, stereotipi e luoghi comuni. Perché la Germania è grande e complessa, e insieme proviamo a capirla e a spiegarla.

La locomotiva del PaeseIl panico da coronavirus rischia di spezzare la catena globale del valore

Secondo l’Osservatorio della Fim Cisl Lombardia, il 2019 si è chiuso con un incremento del 79% dei metalmeccanici interessati da ammortizzatori sociali. Se si blocca uno dei quattro motori d’Europa rischia di restare a piedi l’Italia intera

ANDREAS SOLARO / AFP

L’industria metalmeccanica lombarda non accenna a riprendersi e si prepara a mostrare il fianco al Coronavirus, pronto a spezzare la catena globale del valore lungo la quale si snodano le imprese italiane e, in particolare, lombarde. Secondo l’Osservatorio della Fim Cisl Lombardia, infatti, il 2019 si è chiuso con un incremento del 79% dei metalmeccanici interessati da ammortizzatori sociali: si parla di 17.288 tute blu, divise in 392 aziende. Il peggior risultato dal 2016, anno in cui registrammo l’ultimo picco di crisi, che ci impone una riflessione seria e che getta ombre sulla tenuta economica, produttiva e sociale della nostra regione. Se grippa (si blocca, ndr) uno dei quattro motori d’Europa rischia, infatti, di restare appiedato il Paese intero dal momento che qui risiede il 18,6% del manifatturiero nazionale, il 21,4% degli addetti totali e il 27,3% dei 465,3 miliardi di euro di export nazionale, nel 2018. Il solo settore metalmeccanico lombardo raccoglie più di 400.000 addetti e 68 miliardi di euro di export.

La Lombardia, in definitiva, pesa un quinto del pil nazionale. Bastano questi dati per capire che non c’è più tempo per tentennamenti e improvvisazioni ma occorre intervenire presto anche perché, su questa drammatica congiuntura, incombe lo spettro del coronavirus che sembra aver ipotecato il futuro del nostro tessuto industriale. Nella prima settimana di emergenza abbiamo contato circa 6.000 metalmeccanici lombardi coinvolti da fermi della produzione e riduzione d’orario a causa del virus. La maggior parte, ovviamente, sono dipendenti di imprese della “zona rossa”, ma sono fortemente interessate anche le aree industriali di Bergamo, Milano e Cremona.

I rischi sono altissimi perché il prolungato fermo delle produzioni potrebbe comportare la perdita di quote di mercato e la ritirata dei clienti mettendo a rischio la sopravvivenza stessa delle imprese. In questa fase, va dato atto a Cgil Cisl e Uil, tanto a livello regionale, quanto a livello nazionale, di essersi subito attivate, in modo coordinato e capillare, per fronteggiare questa crisi inedita e contenere, il più possibile, il panico che trova terreno fertile in un paese innamorato delle fake news. Occorre certamente, per prima cosa, mettere in sicurezza la salute dei cittadini e scongiurare il propagarsi del virus e poi costruire risposte uniformi e condivise, ripristinando strumenti di tutela salariale e sociale, come ad esempio la cassa integrazione in deroga, che hanno già dimostrato di funzionare, tenendo a galla il paese negli anni in cui la crisi picchiava. Ma sappiamo già che non basterà.

Dovremo attendere ancora qualche mese per fare un bilancio attendibile degli effetti che il Coronavirus avrà sull’occupazione e sul manifatturiero ma i primi segnali sono allarmanti. Sicuramente la catena globale del valore, in cui le imprese italiane, e lombarde in particolare, sono ben inserite, rischierà di spezzarsi con forti ripercussioni sulla tenuta industriale. Se considerassimo la somma degli elementi e il ciclo logistico che compongono produzioni complesse, come quelle che interessano le nostre imprese, possiamo tranquillamente affermare che queste tipologie di prodotto, prima di vedere definitivamente la luce, facciano due o tre volte il giro del mondo. Un’immagine che rende molto bene l’idea della complessità dei cicli produttivi, della lunghezza delle catene del valore e delle forniture e del livello di interconnessione globale tra le imprese, lasciando quindi intravvedere le conseguenze che potrebbero nascere in un contesto fatto già di blocco delle industrie e del pil cinesi e diffusione del Covid-19.

La Germania è legata all’economia cinese e, dunque, l’eco della frenata di Pechino si sentirà anche a Berlino per poi propagarsi fino a Roma trasformandosi in un cortocircuito per le industrie metalmeccaniche lombarde specializzate nella realizzazione di semilavorati da “spedire” in Germania, nella costruzione di macchine utensili e nella filiera automotive che produce il 40% della componentistica montata sulle auto tedesche. Germania e Italia hanno un mercato parallelo e integrato e quando cala la produzione tedesca ne risente anche quella italiana in termini di contrazioni produttive, riduzione della visibilità degli ordinativi, problemi occupazionali e aggravi, ancora una volta, per la produttività. Ma non solo. La quarantena industriale e commerciale della Cina significa la ritirata del 17% del pil mondiale e, quindi, le ripercussioni saranno globali.

Il blocco della provincia di Hubei, hub della componentistica mondiale, sta frenando la catena globale delle forniture, lasciando le industrie mondiali al palo e causando problemi di approvvigionamento per le imprese dell’ICT e il rinvio del lancio di nuovi prodotti tecnologici con il conseguente stallo delle produzioni. Inoltre, la serrata cinese si sta traducendo anche nel blocco delle attività cosiddette back end, ovvero le fasi finali della catena globale del lavoro dove si scaricano le produzioni occidentali per le lavorazioni di assemblaggio e di basso valore aggiunto. Come se non bastasse, anche la logistica mostra grosse difficoltà complicando la vita delle imprese tanto nelle spedizioni quanto nella ricezione di prodotti e materiali.

Dopo la Banca Mondiale, ora anche Moody’s azzarda previsioni di recessione mondiale, mentre il Governo americano rivede al rialzo le probabilità che il virus sbarchi negli Stati Uniti. Al di là dei numeri, quel che è certo è che più il contagio si allargherà, più l’epidemia si trasformerà in pandemia e più aumenteranno i rischi di entrare in una grande recessione, a maggior ragione se l’economia è già debilitata. Per quanto riguarda l’Italia, alcuni analisti prevedono perdite di alcuni punti percentuali tali non solo da azzerare le già scarse stime di crescita ma da trascinare la crescita sotto lo zero, riportando le lancette al 2008 con tutto quel che ne consegue. Uno scenario da brividi che abbiamo, tutti, il dovere di contrastare e scongiurare.

È il momento in cui occorre unire emergenza e progettazione perché quel che arriverà rischia di essere un altro tsunami pronto a scagliarsi sulle nostre ambizioni di poter restare agganciati all’industria di qualità, ben inserita nei network globali, che punta sull’innovazione, sulla partecipazione e sulle produzioni intelligenti, a cui corrispondono salari migliori, valorizzazione del capitale umano e ambienti di lavoro sicuri e confortevoli. Questa non è un’opzione ma è la strada obbligata che dobbiamo imboccare perché, viceversa, saremmo condannati a scivolare verso un modello di industria fondato sulla riduzione dei costi, in contrazione occupazionale e salariale, dove precarietà e gerarchie rigide e vecchie sono la norma, un’industria che farebbe arretrare tutto il sistema paese.

In questa fase, a maggior ragione, si devono sostenere le imprese agevolando l’accesso al credito, evitando, quindi, di appesantire ulteriormente la loro situazione economico finanziaria che rischierebbe di soffocare occupazione e prospettive produttive. Inoltre, una maggior certezza delle norme e delle leggi, oltre alla semplificazione della burocrazia, consentirebbero di migliorare la nostra capacità di attrarre investimenti esteri che, oggi, sono pari al 20,5% del pil contro una media Ocse del 40,3%. A tal proposito, una gestione meno sensazionalistica dell’emergenza del Coronavirus, probabilmente, avrebbe aiutato a contenere il danno di immagine e il calo di fiducia verso il nostro Paese che equivalgono a danni economici difficili da recuperare. Servirebbe, poi, accorciare i ritardi in tecnologia e innovazione che sono direttamente proporzionali ai “cervelli in fuga”.

I gravi ritardi dell’Italia sulle infrastrutture digitali devono essere colmati velocemente per prepararsi a una sfida in cui la capacità di avere leadership sul digitale coinciderà anche con il benessere industriale. Per questo le nostre imprese hanno bisogno di essere sostenute sui mercati esteri da una politica autorevole e preparata, in grado di gestire, con capacità progettuale, le transizioni all’interno dei tre cambiamenti epocali che stiamo vivendo: tecnologico, ambientale e demografico. Nella legge di bilancio questa visione di insieme e di futuro ha lasciato spazio a piccole iniziative spot. Il piano Industria 4.0, nel 2016, ha avuto il merito di rimettere l’industria al centro dell’agenda politica, facendo ripartire gli investimenti, svecchiando e modernizzando gli impianti produttivi che nel 2016 avevano, secondo i dati Ucimu, un’anzianità media di 13 anni e creando migliaia di posti di lavoro. È apprezzabile che il Governo abbia ripreso quel percorso che oggi prende il nome di Impresa 4.0 anche se preoccupa il fatto che le risorse siano contenute e che il meccanismo del credito di imposta, a giudizio delle imprese, non sia automatico come prima. Per facilitare e programmare gli investimenti, tuttavia servono orizzonti più ampi, di almeno tre anni.

Formazione, capitale umano, partecipazione e contrattazione aziendale sono dunque vere e proprie operazioni di politica industriale a costo zero, con effetto moltiplicativo senza eguali. Su queste direttrici sarebbe facile incentivare la crescita dimensionale delle imprese dando così a tutte la possibilità di dotarsi di disponibilità economiche e intellettuali per una struttura organizzativa all’altezza delle sfide dell’industria 4.0, raggiungere mercati lontani e inserirsi, meglio, nella catena globale del valore e in supply chain più lunghe con benefici sia in termini di competitività che di occupazione.

Il Covid-19 ci ha dimostrato che i problemi di un singolo paese, in questo caso il virus, possono mettere in difficoltà la catena globale del valore, con danni diffusi e difficili da contenere. Ancora una volta le tecnologie possono venirci in soccorso per aiutarci a costruire la certificazione di tutte le fasi del processo lungo, appunto, la catena globale del valore, realizzando dei veri e propri lasciapassare per chiunque voglia partecipare alla filiera, accettando queste regole. Gli anelli della catena globale del valore che non avranno queste certificazioni saranno tagliati fuori. Questo ci consentirebbe di conquistare sovranità industriale e di recuperare il gap di cui la Cina ha potuto beneficiare approfittando, ad esempio, di normative sociali e ambientali meno vincolanti. Una filiera certificata in questo modo, a maggior ragione con produzioni ad alto contenuto tecnologico, consentirebbe di spostare verso l’Europa il baricentro della catena globale del valore, candidando il nostro continente ad avere un ruolo di contrappeso economico e politico al potere di Stati Uniti e Cina, con benefici diffusi anche per il nostro Paese.

Lo zampino della fedAiuto, Wall Street è una bolla che (forse) sta per scoppiare

Il persistere di tassi di interesse a zero o addirittura negativi dovrebbe essere indice di seria preoccupazione. La stessa cosa era accaduta prima della crisi del 2008. Ecco cos’era successo allora

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Nei giorni scorsi l’indice azionario Dow Jones della borsa di Wall Street ha raggiunto i massimi storici con ben 29.400 punti. Forse potrebbe salire ancora. Ad agosto registrava 25.500 punti. Ci si deve domandare, però, se ciò sia un positivo sintomo di salute del sistema finanziario ed economico americano, oppure sia l’indice di un possibile devastante futuro sconquasso. Come accadde nel 2008, ciò che avviene negli Stati Uniti, di solito, determina conseguenze globali.

A nostro avviso, l’andamento di Wall Street è la riprova che il sistema, drogato dalle politiche di grande liquidità e dai tassi d’interesse bassi, addirittura negativi in certe parti del mondo, non può più vivere senza le necessarie dosi di droga. Proprio come accade per gli abituali consumatori di stupefacenti. È la trappola del tasso d’interesse zero!

Dopo le politiche monetarie espansive della Federal Reserve, che avrebbero dovuto rimettere in moto l’economia e portarla fuori dalle paludi della recessione, Washington ha provato a “pilotare” il sistema monetario e bancario verso la normalità. Perciò i tassi d’interesse base della Fed a un certo punto sono saliti. Ma, dall’inizio del 2019, se non già prima, il mondo della politica e della finanza statunitense si è duramente scontrato sull’opportunità di abbassare o no il costo del denaro e ritornare a inondare il sistema con nuova liquidità.

La svolta definitiva si ebbe il 17 settembre scorso quando il cosiddetto mercato finanziario overnight andò in tilt. Il costo dei crediti interbancari a brevissimo termine, necessari per coprire le emergenze di certe banche e di altri istituti finanziari, schizzò dal 2 al 10%. Mancò la liquidità richiesta o l’indispensabile fiducia reciproca? Pensiamo, in verità, entrambe.

Per sopperire a tale improvvisa scarsità di liquidità intervenne la Fed, che, di conseguenza, nel giro di 4 mesi ha fatto crescere il suo bilancio di oltre 400 miliardi di dollari! L’andamento del bilancio della Fed, che riflette la liquidità riversata nel sistema, balza dagli 800 miliardi del 2008 ai 4.500 del 2018, per poi scendere a 3.800 miliardi nell’agosto 2019. Adesso è di circa 4.200 miliardi di dollari. Questi dati fanno comprendere meglio la situazione.

L’economia reale ha visto poco o niente di questa recente nuova liquidità. È rimasta nel sistema bancario e finanziario ed è andata a gonfiare la bolla della Borsa valori. Se per i passati 4 mesi sovrapponiamo la curva dell’espansione monetaria della Fed e quella dell’indice S&P 500, che da ottobre è cresciuto di oltre il 12%, le due curve combaciano. A dimostrazione che gli indici di Wall Street dipendono dalla nuova liquidità della banca centrale. Al riguardo, è opportuno notare che le banche too big to fail sono sempre più concentrate nel riacquisto delle proprie azioni e nella speculazione sugli indici azionari.

Tra i vari derivati otc sembra che nell’ultimo periodo siano aumentati quelli riguardanti le private equity, le azioni. Secondo il terzo rapporto trimestrale 2019 dell’agenzia governativa americana Office of the Comptroller of the Currency (OCC) che controlla il sistema bancario, le banche che hanno fatto trading con i derivati azionari hanno guadagnato 1,8 miliardi di dollari. La JPMorgan in particolare.

Sono sempre più numerosi gli economisti, e non solo, che temono lo scoppio della bolla a Wall Street. Che cosa succederebbe se lo stimolo monetario non potesse più essere fermato? Fino a quando si può continuare a gonfiare la bolla? Che cosa succede in un mondo in cui la maggioranza dei titoli obbligazionari ha un tasso d’interesse negativo? Quale potrebbe essere l’effetto di qualche sconquasso geopolitico oppure di qualche rinnovato scontro sui dazi o sulle monete? Tutti interrogativi cui non è facile dare risposte rassicuranti.

Si ricordi che, nella Grande Crisi finanziaria ed economica appena passata, l’indice Dow Jones era sceso dai 14.000 punti di ottobre 2007 ai 6.600 del marzo 2009. Un crollo superiore al 50% che, com’è noto, accompagnò l’onda della recessione.

KaterBodo Ramelow, ecco come il socialista ha conquistato la Turingia

Ex sindacalista, cristiano osservante e politico pragmatico, il Primo ministro turingiano che ha portato il partito Linke ha esprimere per la prima volta il Capo d’un governo statale, è apprezzato in Germania per lo stile di governo. Nonostante ciò, si ritrova adesso senza maggioranza parlamentare

John MACDOUGALL / AFP

L’attuale Turingia, terra al centro geografico della Germania, ricca di foreste e castelli e senza nessuna grande metropoli, fino al 1918 era frammentata in otto piccoli principati, intervallati in più punti da strisce e lembi di territorio prussiano.
Sovrana su questo mosaico di enclavi, exclavi e confini bizzarri, sopravvissuto per accidente della storia alle furie unificatrici dell’Ottocento, era una pletora di teste coronate, ciascuno granduca nel proprio giardino, dalle quali discendono più o meno tutte le case regnanti dell’Europa contemporanea. Va da sé che soprattutto “a palazzo” noblesse oblige ed il sangue blu da mezzo continente periodicamente debba recarsi in visita in Turingia per omaggiare antenati, inaugurare mostre e deporre corone. Ed a fare gli onori di casa in pompa magna non può che essere il successore costituzionale di un granduca, tre duchi e quattro principi: il Ministerpräsident, capo di Stato e di governo dell’odierno Stato libero di Turingia.

Se stessimo alle tessere di partito, questa dei royal tours dovrebbe essere per il Primo ministro di un Land più a sinistra della storia tedesca dal dopoguerra, più una grana che altro, utile magari soltanto per rimarcare in faccia al principino di turno quanto fossero necessarie le ghigliottine. Ma incasellare in stereotipi di partito Bodo Ramelow, vecchio sindacalista classe 1956 e dal dicembre 2014 Primo ministro della Turingia, sarebbe oltremodo sbagliato. A testimoniarlo sono soprattutto gli elettori turingiani, che il 27 ottobre scorso gli hanno tributato un consenso senza precedenti: 31% alla sua Linke, il miglior risultato nella storia del partito in un’elezione su suolo tedesco, e 42,1% nel suo collegio uninominale della capitale Erfurt. Eh sì, Linke, il partito della Sinistra tedesca, avete capito bene. Perché se stessimo agli stereotipi (e a chi li alimenta) il nostro Ramelow dovrebbe essere una specie di estremista anticapitalista. E invece no, lui fa il royal tour col Re del Belgio ed il Principe Alberto di Monaco. E poi il pieno di voti alle elezioni.

All’inizio lo scetticismo sul fatto che la Linke esprimesse per la prima volta il Capo d’un governo statale in Germania è stato grosso… e rumoroso. Pochi giorni prima che Ramelow venisse eletto Primo ministro, nel dicembre 2014, l’allora Presidente della Repubblica Joachim Gauck tuonò contro di lui tutta la sua sfiducia. Ed anche Angela Merkel, ora come allora a capo di un governo insieme alla SPD, criticò aspramente la scelta dei socialdemocratici di formare ad Erfurt un governo assieme alla Linke. Il filo rosso che al di là di contingenze e polemiche della quotidianità politica però unisce Gauck, Merkel e Ramelow è la convinta appartenenza alla chiesa protestante. Già, perché “Bodo il rosso” non solo è un socialista che però non disdegna appuntamenti con la nobiltà, ma è pure un cristiano convinto e osservante che non perde occasione per testimoniare in pubblico la propria scelta di fede. Certo questo fatto non lo ha messo al riparo da critiche aperte da parte di chi è abituato a sentire politici che si professano pubblicamente credenti solamente nella metà destra dello schieramento politico. Ma tale scelta ha probabilmente contributo a dare a Ramelow, che se occorre prende volentieri la parola anche dal pulpito, l’immagine di un vero Landesvater, un governante padre per l’intero Land al di là delle demarcazioni politiche o confessionali.

L’esito delle elezioni di ottobre 2019, come è stato acutamente osservato, è un successo personale di Ramelow nonostante e forse grazie al fatto che nessuna coalizione convenzionale abbia i voti nel Parlamento di Erfurt per una maggioranza

Non che Ramelow – sposato con la veneziana Germana Alberti – sia una specie di quinta colonna del monarchismo e del puritanesimo contemporanei nel campo avversario. Tutt’altro. Quando c’è da mantenere una linea politica di sinistra nel Land o, attraverso il Bundesrat, a livello federale, il governo Ramelow non ha fatto mancare di sentirsi. Né il Primo ministro tralascia di rappresentare le ansie e le frustrazioni di un Est tedesco che non sempre è uscito vincitore dalla riunificazione del 1990, pur non avendovi vissuto nella fase della DDR. Quello che tuttavia caratterizza Ramlow ed il suo stile di governo è una dote molto apprezzata dai tedeschi: la Sachlichkeit, la capacità di affrontare i problemi nella loro obiettività e senza ideologismi. Tant’è che la maggioranza assoluta dei cittadini turingiani qualifica la Linke nel proprio Land come un “partito di centro” (forse meglio dire: non estremista) ed oltre la metà dei di lei elettori dichiara che non avrebbe votato il partito se a guidarlo non fosse stato per il Primo ministro in carica.

L’esito delle elezioni di ottobre 2019, come è stato acutamente osservato, è un successo personale di Ramelow nonostante e forse grazie al fatto che nessuna coalizione convenzionale abbia i voti nel Parlamento di Erfurt per una maggioranza. Tant’è che quando l’altro volto noto della politica turingiana – il capo dell’ala oltranzista di AfD Björn Höcke, che nel Land è del partito il segretario e capogruppo parlamentare – ha provato di sparigliare le carte e proporre un governo di destra-destra-destrissima (CDU ed FPD con l’appoggio esterno di AfD stessa), il risultato è stato non solo che democristiani e liberali abbiano opposto un categorico diniego, ma vieppiù che il segretario della CDU turingiana Mike Mohring abbia rinunciato a provare a formare una maggioranza lui, con ciò spianando la strada ad un futuro governo di minoranza guidato dall’attuale Primo ministro di sinistra. Già, perché l’unica alternativa al pater patriae Ramelow (rieletto ma senza una maggioranza) sarebbe un governo pendente da labbra e capricci del quasi-neonazista Höcke.

Certo, Bodo il rosso è un politico navigato. L’aver fatto approvare dal Parlamento il bilancio statale 2020 già l’estate scorsa e l’aver evitato un election day con gli altri due Länder orientali al voto quest’anno ha da un lato concentrato l’attenzione degli elettori sui risultati del governo statale uscente e dall’altro creato quella finestra temporale ora necessaria per comporre una non facile sfida nella formazione del governo che verrà. Perché se Ramelow-bis sarà, l’assenza di una maggioranza assoluta in Parlamento per i tre partiti che sostengono il Primo ministro (Linke, SPD e Verdi) costringerà su ogni tema ad accordi con le opposizioni di CDU ed FPD. Non certo una sfida facilissima, ma il pragmatismo cui già abbiamo accennato potrebbe aiutare. E l’aura da pater patriae – socialista, cristiano e granducale – forse farà il resto.

Kater è un blog collettivo che parla di Germania – o almeno ci prova – al di là di semplificazioni, stereotipi e luoghi comuni. Perché la Germania è grande e complessa, e insieme proviamo a capirla e a spiegarla.

Nei laboratori dell’innovazione: cosa si impara studiando le storie di eccellenza italiane

Non esistono ricette uniche per il successo di un’azienda. Ma “Il gioco degli opposti”, edito da Egea, racconta dieci casi di realtà del Paese da prendere come modelli. Ognuno è un esempio di come concretezza, ambidesterità (coniugare vecchio e nuovo) e tempestività siano centrali per il business

Alfredo ESTRELLA / AFP

Un concetto ricorrente in letteratura, e anche nei nostri casi, è quello di ambidexterity.

L’azienda deve riuscire a creare un ambiente ambidestro per affrontare la tensione tra il vecchio e il nuovo. Deve sfruttare elementi opposti e per certi aspetti quasi incompatibili tra loro per mantenere uno stato di costante tensione creativa: vecchio e nuovo, esplorazione ed efficienza, disciplina e sperimentazione. Questa non è un’idea recente1, ma nelle vicende riprese in queste pagine la fatica e l’impegno necessario per raggiungere questo equilibrio sono assai evidenti.

Esiste una ricetta per garantire questo successo? Probabilmente no: siamo davanti a dei fuoriclasse, casi unici, storie difficilmente replicabili. Ciò nonostante, per identificare un filo conduttore nella lettura di questi casi, ci sono almeno tre aspetti da sottolineare e che ci piace trasmettere.

Il primo è il rispetto.

A Berkeley, dall’altra parte della baia di San Francisco rispetto alla città dove è stato ambientato Inside Out, la Haas School of Business rappresenta un’eccellenza nel campo del management. Di fronte all’ingresso principale si trova la statua di due orsi, seduti schiena contro schiena. Uno di loro guarda verso l’alto e sembra pensare: «Ci sono tante più cose in cielo che nella nostra filosofia!». L’altro guarda dritto davanti a sé e ha l’aria molto concreta: «Solo chi tiene il timone saldo in mano può cambiare rotta!». I due orsi non si guardano, anzi sembra proprio che si ignorino, ma in realtà rappresentano entrambi elementi essenziali dell’ambiente ambidestro dell’azienda. Da notare la loro posizione: schiena contro schiena. Il rispetto per il ruolo e la rilevanza dell’altro è l’elemento chiave che mantiene i due in equilibrio, intenti in due occupazioni diverse. Il rispetto per le componenti opposte e per le diverse funzioni che caratterizzano la divisione dei compiti all’interno di un’azienda è senza dubbio una costante in tutti i casi che abbiamo analizzato.

Secondo aspetto: il momento del cambiamento.

Non è rilevante narrare solamente quanto le aziende hanno saputo fare in termini di nuovi processi, prodotti, o modelli di business: è altrettanto importante focalizzarsi sul momento e sul contesto in cui hanno realizzato tutto ciò. In molti casi si è saputo fare perno sulle difficoltà, in altri sulle opportunità: le aziende hanno saputo organizzarsi per cambiare rotta in maniera molto efficace. Non è banale per un’azienda mettere in discussione le proprie routine organizzative, il proprio «modo di fare le cose», specie se esse sono consolidate e hanno avuto successo in passato. Tutte le aziende di cui abbiamo raccontato insieme ai nostri co-autori si sono trovate ad affrontare determinati momenti in cui è stato necessario fare quadrato per gestire percorsi di cambiamento molto complessi. Nel traguardare l’azienda verso nuovi obiettivi la leadership è riuscita sia a preservare gli elementi di eccellenza che fino a quel momento avevano caratterizzato il proprio business, sia ad adottare delle strategie a forte contenuto di creatività (e di investimenti), che hanno permesso di rafforzare il proprio vantaggio competitivo e allo stesso tempo di cogliere nuove opportunità.

Infine: focus sui risultati.

Un’azienda che sperimenta strade nuove mentre mantiene salde le risorse e le competenze alla base delle proprie attività deve anche essere attenta a rimanere con i piedi per terra: inseguire un pensiero strategico e allo stesso tempo mantenere grande attenzione ai risultati raggiunti. Investire in innovazione vuol dire affrontare sfide dall’esito incerto. Spesso i risultati intermedi non sono in linea con l’obiettivo finale, e spesso i risultati effettivamente conseguiti sono diversi, ma non per questo meno interessanti di quelli che si volevano raggiungere. Solo un’attenta e onesta analisi dello scostamento tra obiettivi e risultati permette all’azienda innovativa di dominare il percorso di cambiamento. Le aziende di cui raccontiamo in questi capitoli si sono dotate di sistemi informativi e di controllo, sistemi di incentivi e stili di leadership che hanno permesso di mantenere il cuore caldo e mente fredda, e sono state in grado di adottare modifiche marginali o sostanziali alle decisioni prese.

La ricerca nel campo del management non si sviluppa solo tramite approcci quantitativi che tentano di sintetizzare e modellizzare la complessità aziendale. Un ricercatore di economia aziendale non può non trascorrere del tempo insieme a manager, imprenditori e innovatori per ascoltarli, capirli e descrivere come e perché certe cose accadono.

In questo libro presentiamo una raccolta di casi che ci permette di dare colore e di sviluppare una narrazione forse meno generalizzabile, ma più attenta al dettaglio del singolo episodio. Narrare lo sviluppo di nuovi processi, prodotti e modelli di business è fondamentale per una vera comprensione della gestione dell’innovazione. Quello che vorremmo trasparisse da queste pagine è il racconto di una pluralità di forme.

Alla fine di questo lavoro ci siamo forse sentiti ancora meno convinti di prima sulle verità assolute che a volte caratterizzano la descrizione del management dell’innovazione. Ai nostri colleghi ricercatori va l’esortazione a mantenersi aperti a osservare molteplici forme e sfumature nelle strategie aziendali e a mettere continuamente in discussione teorie e modelli pre-esistenti. A manager e imprenditori va l’invito a continuare a sperimentare e a raccontare con orgoglio i loro tentativi e i loro successi.

da Il gioco degli opposti. Storie di innovazione italiana, di Alberto Di Minin, Cristina Marullo e Andrea Piccaluga, Egea (2019)

La letteraLa pioggia di falsità che è caduta sul Festival dell’Aquila con Saviano e Zerocalcare è un problema di tutta l’Italia

L’ideatrice della kermesse abruzzese, organizzata per ricordare il decennale del terremoto, spiega che cosa è successo, racconta gli insulti subiti e smonta le bugie del sindaco di destra che si rifiuta di ospitare gli Incontri

da Maxpixel

Immaginate un Festival che non esiste, ma che quasi tutti conoscono.

È accaduto in queste settimane con il Festival degli Incontri, un format che ho ideato per la mia città, L’Aquila, e che si sarebbe dovuto svolgere nella sua prima edizione dal 10 al 13 ottobre, in un anno simbolico e molto delicato per noi aquilani come lo è quello del decennale del sisma.

È appena stato inviato alla stampa un appello a firma di alcuni fra i tanti artisti che avrebbero dovuto partecipare all’evento affinché il Festival si faccia e abbia luogo senza veti né censure. Fra i firmatari: Roberto Saviano, Zerocalcare, Fabrizio Gifuni, Marco Damilano, Ascanio Celestini, Donatella di Pietrantonio, Marcello Fois, Iaia Forte, Paolo Giordano, Massimiliano Coccia, Michela Murgia, Paolo Repetti, Giuseppe Genna, Chiara Valerio, Daniele Vicari.

In un passaggio, si legge: «Chiediamo a tutte le istituzioni coinvolte, a partire dal ministero della cultura, di confermare il Festival nella sua programmazione e nella direzione artistica».

Ma facciamo un passo indietro.

Di colpo, immaginate di essere catapultati in un reticolo di comunicati, conferenze stampa, dichiarazioni, repliche, smentite e ricostruzioni contrastanti, contraddittorie, inconciliabili. E di colpo, avrete sotto mano una fotografia perfetta del nostro Paese. Sbaglia chi crede che sia un episodio, questo, da ascrivere a una dimensione unicamente locale. Da qualsiasi punto di vista la si legga, tutta la querelle legata al Festival degli Incontri, corre su due binari paralleli e ha, sotto vari aspetti, un carattere doppio e una natura stratificata.

La direttrice artistica selezionata (con una pubblica manifestazione d’interesse) per declinare il palinsesto del Festival, Silvia Barbagallo, Presidente dell’associazione Minimondi, nota per aver ricoperto, tra i tanti incarichi, quello di capo del coordinamento esecutivo del Festival della piccola e media editoria Più libri più liberi, accusa il sindaco di ingerenze politiche sul programma da lei ideato. Parla dalle pagine di Repubblica e dichiara che il sindaco de L’Aquila, Pierluigi Biondi, ex militante di CasaPound, si è fatto vivo manifestando l’intenzione di voler condizionare il supporto operativo del Comune e proponendo l’esclusione di alcuni ospiti sgraditi alla sua aerea politica, Fratelli d’Italia. Primi fra tutti, gli ospiti Roberto Saviano e Zerocalcare.

Voilà, s’incendia la polemica sulla stampa nazionale. La risposta del sindaco non si fa attendere. Viene convocata a L’Aquila una conferenza stampa. I giornali locali titolano “Biondi è una furia”. Nella furia, resta una dichiarazione fra le altre: «Qui non si sta parlando di cultura, ma delle marchette di De Simone e Barbagallo». Questo prima che il sindaco si riferisse a noi definendoci «sciacalle».

«Hanno scritto che non voglio Saviano e Zerocalcare. No, non ce li voglio. Perché la mia è una città nobile»


Pierluigi Biondi, sindaco de L’Aquila

È solo l’inizio. A partire da quel momento, una giravolta di interviste a tutti i protagonisti della – “triste” può essere un eufemismo o pleonasmo, fate voi – vicenda. La linea della Barbagallo, che condivido, resta sempre la stessa: non è accettabile un veto politico sulle scelte artistiche di un direttore. Così si crea un precedente pericoloso: tollerare che la scelta artistica di un contenitore culturale abdichi a degli interessi politici. E noi non ci stiamo. La linea del sindaco smentisce, in un primo momento, la censura e porta il fuoco su altro: nessun veto. La verità sarebbe che non esiste alcun programma, che siamo di fronte a un increscioso caso di “Festival fantasma”. In sintesi, la direttrice artistica accuserebbe il sindaco di censura per trovare una via di fuga dato che non ha fatto, o non ha saputo fare, il suo lavoro.

A questo punto, gli aquilani si schierano su due fronti opposti. C’è chi si dice allarmato per il veto del sindaco sul cartellone di un evento culturale – che il comune neanche finanzia, ma che sostiene interamente il Mibact. C’è chi guarda con sospetto alla Barbagallo, l’ideatrice di un palinsesto che non esiste, la (pseudo)professionista con simpatie a sinistra che ora scappa dalle sue responsabilità incolpando il sindaco.

Ma tornerò poi sul “sentiment” dei leoni da testiera, per citare la mia analista politica preferita, Barbara D’Urso, che ogni settimana in tivù ci consegna una fotografia così nitida del paese. È il momento, ora, di un colpo di scena! A distanza di pochi giorni, nella kermesse organizzata da Fratelli d’Italia, davanti gli astanti di Atreju, Biondi torna alla carica contro Saviano e Zerocalcare – ribattezzato a L’Aquila: “Zero(ottoseidue)Calcare”, con l’aggiunta ad honorem del prefisso cittadino. In un video che rimbalza su gran parte della stampa nazionale e in tutti gli anfratti dei quotidiani-siti-blog aquilani, Biondi, microfono alla mano, afferma: «Hanno scritto che non voglio Saviano e Zerocalcare», suspense… «No, non ce li voglio». Ecco. «Perché la mia è una città nobile».

I documenti smentiscono il sindaco, ma la narrazione che della vicenda è stata fatta è più persistente dei fatti. Il programma c’era – che programma!, dico io – e il Comune sapeva

Si potrebbe scrivere un saggio su ciò che di discutibile c’è in questa frase, e non a partire dalla censura a Saviano, ma a partire dalla concezione para-feudale della città che si amministra, come se il capoluogo abruzzese fosse una proprietà in cui il primo cittadino può invitare o bandire tizio e caio, per poi proseguire su un passaggio rivelatore: il salto logico No-Saviano/città-nobile.

E tuttavia, puntiamo alla sintesi. Ancora una carrellata sfiancante di commenti, interviste e comunicati in cui interviene perfino il Ministro appena insediato. Dario Franceschini condanna la censura in un tweet, poi scrive di suo pugno al sindaco: «La invito a porre in essere tutti gli atti volti ad assicurare lo svolgimento del Festival secondo il programma previsto che, come ho già ribadito nei giorni scorsi e alla luce di quanto sopra illustrato, non può né deve essere oggetto di alcuna pressione e interferenza politica». E in cui intervengono – qui il primo tassello a favore di una lettura che deve astrarsi dal locale e compiersi su un piano generale – da una parte, Matteo Renzi, Gennaro Migliore (Italia Viva) Stefania Pezzopane (Pd), l’ex Sottosegretario alla cultura Gianluca Vacca (Cinque Stelle); e dall’altra, Giorgia Meloni (FdI), Gaetano Quagliarello (identità e Azione), il Presidente della regione Abruzzo Marco Marsilio (FdI).

Ultima parola, ma solo per ora, ce l’ha il ministero dei Beni Culturali che passa ai giornali copia di un documento che smentisce il sindaco. Il 7 agosto l’alto funzionario del Comune de L’Aquila, Alessandra Macrì, invia al Mibac una richiesta per l’anticipazione del 60% dei 700mila euro stanziati dal ministero per il Festival, nella quale lettera allega il “programma del Festival internazionale degli incontri sottoscritto dal direttore artistico”. Il programma, quindi, esiste e il Comune – che lo ha approvato tramite un delegato del sindaco in data 31 luglio – non poteva non sapere. Fino al giorno prima, Biondi ha dichiarato che non c’era nulla, se non “qualcosa di vago”. Ma tant’è.

Il doppio binario su cui scorre la vicenda, tuttavia, è questo: a partire da un fatto, esiste, da una parte, la comunicazione politica e dall’altra, gli atti di natura amministrativa che sono il dato di realtà. I documenti smentiscono il sindaco, ma la narrazione che della vicenda è stata fatta è più persistente dei fatti. Il programma c’era – che programma!, dico io – e il Comune sapeva. E però questo non impedisce di scrivere alcuni commenti tipo: chi pensate di prendere per scemo?, non me la date a bere a me!1!

E allora, leggere i commenti in cui augurano la morte a Silvia Barbagallo chiamata in causa in un tweet costruito ad arte da Giorgia Meloni. Leggere quelli in cui danno della troia di Renzi a me, perché l’ex Premier ha scritto un post in nostro favore. Leggerli con la pancia stretta – quando va male – o con lo sguardo scorato ma composto di Padoan davanti alla Castelli – nei giorni sì. Leggerli e sentirsi in colpa per tua madre che è subissata di chiamate e adesso ha la febbre, leggerli e dirsi: ma se vale tutto si metteranno in gioco solo quelli che non perdono niente? Leggerli e pensare: non avrei dovuto proporre un’idea al Mibac per il decennale e fare incontri e riunioni e chiamate – senza percepire alcun compenso, va detto, non perché ci sarebbe qualcosa di male, ma perché la retorica populista delle “poltrone” in questi giorni ha colpito anche me e allora basta ve lo dico: come Presidente (“molto pro tempore” per citare il sindaco) del Teatro Stabile d’Abruzzo non percepisco neanche un soldo, finitela. Leggerli e dirsi: come uscire da questo clima d’odio e dalla cultura del sospetto? Come non indignarsi di fronte all’equivoco di una politica che, in quanto legittimata dal voto, pretende di andare oltre se stessa? Quanto può ingrassarsi, nel tempo, il fondale psichico di profondo maschilismo – perché c’è anche questo ed è inutile negarlo – che nel nostro Paese torna a galla nel silenzio ogni giorno di più e investe, in questo caso, delle private cittadine senza curarsi delle conseguenze, neanche di quelle giudiziarie, dato che “marchettare e sciacalle” o “amichette del ministro” suonerebbe come una diffamazione?

E quando abbiamo smesso di trovarci d’accordo su alcune regole di base, insindacabili e necessarie, come il rispetto dei ruoli (dei limiti) che competono a ognuno di noi? Soprattutto: non è che, con l’ironia e la disillusione un po’ mondana, stiamo sottovalutando il rischio di un modus operandi che mina le basi del nostro stato di diritto?

Per altri aggiornamenti, a presto.

* scrittrice e presidente del Teatro Stabile d’Abruzzo

Ocean’s tales Il Mediterraneo è in pericolo, ma nessuno se ne prende cura

È uno dei centri più ricchi in termini di biodiversità. Ma il Mediterraneo è anche molto sfruttato dalle attività umane. Ecco perché flora e fauna sono in pericolo. Occorrono maggiori impegni

Il Mar Mediterraneo è il più grande e profondo mare chiuso del pianeta e uno dei centri più ricchi in termini di biodiversità, ospitando fino a più di 15.000 specie marine. Tuttavia, a causa di varie e significative pressioni esterne, è allo stesso tempo una delle zone maggiormente a rischio del mondo intero.

Innanzitutto, la sovrappopolazione: le sue coste sono abitate da 400 a 500 milioni di persone e il numero si amplia in modo considerevole durante la stagione estiva. Inoltre, rappresenta una delle vie di trasporto più importanti al mondo con conseguente sfruttamento eccessivo delle attività di pesca e di estrazione di petrolio e gas. Infine, la regione mediterranea è anche una delle zone più esposte agli effetti dei cambiamenti climatici.

Il deterioramento degli habitat, le attività estrattive, l’inquinamento, l’eutrofizzazione, l’introduzione di specie esotiche e, recentemente, il cambiamento climatico rappresentano quindi delle vere e proprie minacce che incidono sulla varietà della flora e fauna di quest’area, la cui conservazione costituisce una grande sfida.

Gli obiettivi richiesti dalle organizzazioni internazionali sono chiari ma per raggiungerli occorre compiere molti più sforzi per preservare la biodiversità del nostro mare

A livello regolamentare però alcuni passi avanti sono stati fatti. In particolare, secondo quanto stabilito all’undicesimo punto degli Aichi Target del Piano strategico per la biodiversità 2011-202011 (punto di riferimento per tutto il sistema delle Nazioni Unite) entro il 2020 il 10% delle aree marine e costiere dovrebbero essere gestite e protette attraverso un sistema adeguato ed efficace.

Inoltre, l’Obiettivo 14 “La vita sott’acqua” per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite pone anch’esso l’accento sulla gestione in modo sostenibile e sulla protezione dell’ecosistema marino e costiero. Tuttavia, i programmi ad hoc – di cui solo pochi basati su pratiche di gestione incentrate sulla preservazione degli ecosistemi – risultano ancora scarsi, con pochi sistemi di controllo e monitoraggio che li rende spesso inefficaci.

Alla luce di tale contesto diventa quindi necessario lavorare su aspetti specifici per migliorare lo stato di conservazione della biodiversità nel Mediterraneo. La regione infatti presenta un gap in termini di consapevolezza della sua biodiversità con lacune significative per quanto riguarda la raccolta di elementi di carattere quantitativo, soprattutto nella parte meridionale; l’aumento delle attività umane che si svolgono sulle sue acque e lungo il loro corso non è bilanciato da misure conservative adeguate a causa della scarsità di finanziamenti da parte degli Stati che affacciano sulle sue coste; la governance delle aree protette è limitata, e addirittura inferiore se si fa riferimento a pratiche di gestione basate sulla conservazione degli ecosistemi. Gli obiettivi richiesti dalle organizzazioni internazionali sono chiari ma per raggiungerli occorre compiere molti più sforzi per preservare la biodiversità del nostro mare.

Riforme necessarieSveglia, gialloverdi: l’economia italiana è ferma e voi non state facendo nulla

Parlare di crescita davanti a una previsione di +0,1% di Pil è un insulto all’intelligenza collettiva. La realtà è che le imprese non investono, l’industria langue e la disoccupazione giovanile aumenta. Contrattazione e produttività sono le uniche soluzioni

Tiziana FABI / AFP

Che il Mise non abbia chiaro il numero dei tavoli di crisi aperti è un fatto grave e drammatico dal momento che sono a rischio oltre 300.000 lavoratrici e lavoratori. Non avere un’istantanea reale della situazione industriale del proprio Paese è la premessa per brancolare nel buio, buttare soldi in modo scriteriato e sconnesso da un’idea di futuro, mancando anche il duplice obiettivo di aiutare i lavoratori a ritrovare una prospettiva e le imprese a rilanciarsi.

Con questa premessa, non sorprende che la produzione industriale sia al palo e che l’Italia sia prigioniera della stagnazione. Parlare di crescita davanti a una previsione di +0,1% di Pil è un insulto all’intelligenza collettiva, buono solo per consolidare l’ultimo posto in classifica sia in Europa che nel G7. Uno scenario, questo, che mina la speranza di costruire la prossima manovra finanziaria puntando sulla crescita e aumenta il rischio di ulteriori tagli e sacrifici. Infatti, la scorsa manovra era stata realizzata sulla base di aspettative di crescita che non si sono realizzate e che sono state smentite dallo stesso Governo che ha quindi impegnato risorse ingenti, molte delle quali a debito, per delle misure che hanno prodotto arretramento economico e industriale.

Nonostante tutto questo, il Governo continua a buttarla in caciara e a fuggire la responsabilità di affrontare il tema del lavoro, unica strada da cui passa il rilancio del Paese, nascondendo dietro inutili dibattiti e polemiche create ad arte la propria sospetta incompetenza. Non occuparsi dei problemi ha dei costi. Infatti, il tasso di occupazione giovanile tra i 15 e 24 anni è precipitato al 18,1%, contro il 42,2% dell’area Ocse e il 33,8% della zona euro. La cassa integrazione è in crescita: nel secondo trimestre di quest’anno, in Lombardia il ricorso agli ammortizzatori sociali è aumentato del 5,68%, in crescita costante da tre trimestri consecutivi; in particolare, è cresciuto del 12,65% l’utilizzo della Cassa Straordinaria; il settore metalmeccanico ha visto un aumento del 9,76% della cassa ordinaria e straordinaria e segnala particolari difficoltà anche nell’indotto auto e svariate riorganizzazioni che mettono a rischio oltre 2.000 posti di lavoro.

Fossero dei giocatori di calcio, i nostri governanti, probabilmente riceverebbero il Pippero, famoso riconoscimento con cui Mai Dire Gol premiava i calciatori “scarponi”, come quello che fece autogol in rovesciata da centrocampo

La produzione industriale è in contrazione. Si allarga il divario tra Nord e Sud, con la duplice beffa di non mettere le Regioni che corrono nelle condizioni di liberare tutto il proprio potenziale e dimenticare di recuperare quelle in difficoltà, che della crescita delle prime potrebbero beneficiare, aumentando contraddizioni e riducendo le opportunità per tutti. I dati UCIMU, inoltre, ci dicono che nel secondo trimestre del 2019 gli ordini di macchine utensili si sono ridotti del 31,4% rispetto allo stesso periodo del 2018. Una frenata dovuta sia al rallentamento del mercato estero e sia, soprattutto, dalla contrazione marcata della domanda interna, a significare che le imprese hanno abbandonato gli investimenti.

Nel 2017 e all’inizio del 2018 la spinta del Piano Industria 4.0, del precedente Governo, aveva fatto da volano a investimenti, produzione e occupazione, poi l’incertezza e i tentennamenti dell’esecutivo “giallo-verde”, sulle misure relative alla competitività e sugli scenari economici, hanno legato con doppio nodo i cordoni della borsa degli imprenditori che si sono seduti in attesa di tempi migliori. È vero che negli scorsi anni sono spariti diversi milioni di investimenti privati, che devono tornare in circolo, ma è altrettanto vero che nessuno, sia esso imprenditore o cittadino comune, investirebbe in una situazione di incertezza. Incertezza che in Italia non manca e che annebbia il presente e il futuro da oltre un anno a questa parte. Un periodo di chiacchiere e di aumento della spesa a scapito della crescita, con aggravio di costi annesso e senza nessun effetto benefico e moltiplicatore sull’economia. Fossero dei giocatori di calcio, i nostri governanti, probabilmente riceverebbero il Pippero, famoso riconoscimento con cui Mai Dire Gol premiava i calciatori “scarponi”, come quello che fece autogol in rovesciata da centrocampo.

È ora il momento di agire. Serve, come chiedono Cgil Cisl Uil, una seria riforma fiscale, collegata a una dura lotta agli evasori, che vada a favore di lavoratori dipendenti e pensionati. La flat tax, buona solo per i convegni sovranisti e per la finanza creativa, darebbe benefici solo a un contribuente su tre e potrebbe, addirittura, far pagare di più gli altri per via delle rimodulazioni su detrazioni e deduzioni e per la probabile cancellazione dei famosi 80 euro. Una seria riduzione del cuneo fiscale aiuterebbe anche l’occupazione e, a tal proposito, va ricordata la vigliaccata fatta dal Governo che, nel tentativo maldestro di abbassare le imposte alle imprese, ha ridotto i contributi Inail producendo un arretramento sul piano della tutela della salute e sicurezza anche in una Regione, come la Lombardia, che nei primi 5 mesi del 2019 ha contato 59 morti (15 in itinere e 44 sul lavoro).

Se siamo tutti convinti che l’Industria 4.0 sarà la strada obbligata per restare in corsa nella competizione industriale, bisogna dare a tutte le imprese la possibilità di agganciare l’innovazione digitale

Occorre rimettere in moto gli investimenti collegandoli a un progetto di Paese: se siamo tutti convinti che l’Industria 4.0 sarà la strada obbligata per restare in corsa nella competizione industriale, bisogna dare a tutte le imprese la possibilità di agganciare l’innovazione digitale, filone su cui siamo in fortissimo ritardo rispetto agli altri paesi. A questo tema vanno collegate anche misure di riorganizzazione tecnologica e organizzativa intervenendo, parallelamente, per adeguare le infrastrutture e le reti digitali, vie utili pure a creare lavoro al pari dello sblocco dei cantieri e delle grandi opere. Un grosso aiuto potrebbe arrivare dalla contrattazione soprattutto da quella aziendale e territoriale, strumento che ci consentirebbe di guardare alle piccole imprese, quelle che, da sole, non avrebbero i mezzi e le possibilità per innovare e rinnovarsi; la contrattazione territoriale dunque favorirebbe l’accompagnamento di queste imprese verso la digitalizzazione collegandole a un sistema di servizi adeguati, facilitando l’accesso al credito senza garanzie capestro, e integrandole ai competence center in una rete virtuosa in grado di favorire questa transizione delicata e decisiva.

La contrattazione, inoltre, è il volano necessario per incidere sulla produttività, unica via per migliorare la competitività delle imprese, liberare risorse da reinvestire in nuovi macchinari, in tecnologie, in aumenti di salario e in nuova occupazione, oltre a produrre benessere anche per le comunità dove l’impresa insiste. Contrattazione e produttività, tema che deve stare a cuore a tutti, passano anche dalla partecipazione delle lavoratrici e dei lavoratori, quantomeno sul fronte dell’organizzazione del lavoro snodo dal quale poter davvero incidere nei miglioramenti, responsabilizzando reciprocamente le parti e producendo l’innalzamento della qualità delle relazioni industriali. Gli imprenditori abbiano il coraggio di sfidare questo tipo di sindacato, consapevoli che la qualità di questa sfida porterà ad auto-emarginare il pezzo conservatore che punta tutto, ancora, sui rapporti di forza e sul conflitto piuttosto che sulla qualità e dignità delle idee e della partecipazione che producono avanzamenti condivisi e migliorie decisive.

Solo prendendoci cura delle competenze delle lavoratrici e dei lavoratori il sistema paese riuscirà a evolvere, a innalzare il livello di sviluppo, ad attrarre investimenti, a favorire l’innovazione

A livello territoriale, inoltre, sarebbe utile creare un’anagrafe delle competenze, che consentirebbe di avere un monitoraggio costante, anche attraverso l’utilizzo delle tecnologie, delle professionalità e delle skill delle lavoratrici e dei lavoratori presenti nelle imprese, e nel mercato del lavoro, preoccupandosi di mantenerle sempre al passo coi cambiamenti e agganciate alle traiettorie di sviluppo delle imprese stesse. Un modo efficace per poter, anche, incrociare domanda e offerta sulla base di dati scientifici e richieste precise oltre che allineare, attraverso la formazione, le competenze delle persone che perdono il lavoro, a cui scade il contratto, o che cercano nuove esperienze, alle ricerche di personale qualificato che le aziende fanno.

In questo modo si supererebbero, in modo virtuoso, le rigidità del decreto dignità, alzando il livello del mercato del lavoro e contribuendo a spingere verso l’alto competenze e professionalità, producendo benefici collettivi. Un circuito che deve incastrarsi con un sistema ben oliato di alternanza scuola lavoro in modo che il mondo dell’istruzione torni a essere fucina delle competenze che le imprese richiedono per poter agganciare l’innovazione. Solo prendendoci cura delle competenze delle lavoratrici e dei lavoratori il sistema paese riuscirà a evolvere, a innalzare il livello di sviluppo, ad attrarre investimenti, a favorire l’innovazione, mantenendosi competitivo nell’industria globale dove si vince puntando su innovazione di prodotto e processo, in ricerca e sviluppo, in produzioni di qualità e ad alto valore aggiunto. Condizioni, queste, necessarie per avere salari elevati, che beneficino dei miglioramenti di produttività.

Serve un salto culturale potente, inclusivo e trainante che possa dettare una nuova agenda di sviluppo, crescita e benessere, dentro cui tutti possano realizzarsi e nessuno resti indietro. Siamo davanti a una sfida epocale dove chi ha responsabilità, a vari livelli, deve farsi carico di accompagnare le persone in questo cambiamento, sciogliendo, coi fatti, le normali preoccupazioni che, se trasformate in paure, bloccano il progresso e frenano la creazione di nuove tutele e migliori opportunità. Ecco perché occorre quanto prima imparare a fare sistema. Questa è una sfida che si vince tutti insieme, a condizione che il Governo esca da Facebook, inizi a sciogliere i nodi che rischiano di soffocare il nostro futuro, e accolga la sfida di chi ha a cuore il futuro del Paese.

Ocean’s talesLa tutela degli oceani? Ecco perché non possiamo permetterci di “avere altre priorità”

Malgrado sia inserito tra gli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, la tutela dei mari e degli oceani è agli ultimi posti tra le priorità mondiali. Nulla di più sbagliato: se non proteggeremo il nostro più grande patrimonio naturale, perderemo anche la nostra primaria fonte di vita

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Proteggere la salute dell’oceano e la vita marina è quanto si propone l’Obiettivo 14 (Sustainable Development Goal, SDG) fissato dall’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite – il programma d’azione sottoscritto nel settembre 2015 dai governi di 193 Paesi – basato su 17 obiettivi che affrontano questioni di fondamentale importanza per il benessere del pianeta e dell’uomo. Tra questi, l’SDG 14 riveste un ruolo fondamentale, interagendo con gli altri obiettivi in vari modi.

In primo luogo, dalla conservazione e dall’utilizzo sostenibile dei mari dipende la sopravvivenza e la salute di miliardi di persone. La sicurezza alimentare delle fasce più vulnerabili della popolazione mondiale deriva dalla disponibilità di risorse marine. Il pesce, allevato o pescato, è una fonte essenziale di proteine, acidi grassi, vitamine, calcio, zinco e ferro per più di 1 miliardo di persone e rappresenta almeno il 20% dell’apporto medio pro-capite di proteine per quasi 3 miliardi di loro.

Allo stesso modo, gli oceani forniscono gratuitamente un’ampia gamma di beni e servizi essenziali per sostenere il benessere e la qualità della vita dell’uomo. In particolare, secondo le stime del WWF, i servizi prodotti dai mari sono pari a circa $2.500 miliardi all’anno. L’oceano fornisce, ad esempio, il 50% dell’ossigeno che respiriamo (più della foresta amazzonica), e rappresenta il più grande serbatoio naturale di anidride carbonica sulla Terra. I mari svolgono, inoltre, un fondamentale ruolo di termoregolazione del clima e contribuiscono alla protezione da condizioni meteorologiche estreme, oltre a fornire servizi ricreativi e paesaggi dal valore inestimabile.

Infine, la Blue Economy, cioè i settori industriali e di servizi collegati al mare (pesca, cantieristica, trasporti marittimi, turismo costiero, ecc.), crea occupazione e benessere. La Blue Economy impiega nell’Ue più di 4 milioni di persone e genera €658 miliardi di ricavi all’anno, con un valore aggiunto superiore ai €168 miliardi. A livello mondiale, le stime dell’Ocse parlano di 40 milioni di posti di lavoro con un valore aggiunto di $3.000 miliardi entro il 2030.

A dispetto della sua rilevanza, il ruolo dell’oceano e dei mari non sembra essere ancora adeguatamente compreso e valorizzato da parte dal mondo economico e dalla nostra società

Nel complesso, tuttavia, e a dispetto della sua rilevanza, il ruolo dell’oceano e dei mari non sembra essere ancora adeguatamente compreso e valorizzato da parte dal mondo economico e dalla nostra società. Recenti studi che hanno analizzato l’attenzione rivolta dalle imprese ai 17 SDG hanno evidenziato che il SDG 14 risulta agli ultimi posti nella lista delle priorità.

Tale discrasia è da attribuire in larga misura alla percezione che abbiamo del nostro impatto sull’oceano e sui mari. Solo le organizzazioni e le persone che hanno a che fare in via diretta con le risorse marine, e che da queste dipendono – quali la pesca o il turismo – sembrano avere cominciato a comprendere che le loro attività possono condizionare e danneggiare la salute di questi habitat naturali.

Al contrario, chi ha un impatto indiretto sembra molto lontano dall’avere preso coscienza delle proprie responsabilità. In realtà, sono molteplici i settori industriali che producono forme di inquinamento che finiscono nei mari. Oltre alle plastiche, possiamo pensare alle emissioni di gas clima-alteranti come la CO2 che derivano dall’uso delle fonti fossili, e che generano il fenomeno dell’acidificazione dell’oceano, oppure l’impiego intensivo di fertilizzanti e concimi, che attraverso i fiumi e i corsi d’acqua si riversano nei mari determinando l’eutrofizzazione di ampie zone marine.

Produzione e consumo di energia, trasporti, riscaldamento, agro-chimica, industria alimentare e tessile contribuiscono a modificare la salute dell’oceano, e dovranno pertanto collaborare a trovare adeguate risposte se non vogliamo perdere questo fondamentale patrimonio naturale, da cui tutti dipendiamo, al di là di quanto siamo abituati a capire e riconoscere.

A cura di Stefano Pogutz e Manlio De Silvio, SDA Bocconi School of Management Sustainability Lab

Ocean’s talesL’oceano? È una miniera d’oro (a patto di saperlo tutelare)

Gli oceani non sono solo una risorsa essenziale per il nostro benessere e la nostra sopravvivenza, ma anche un’incredibile fonte di ricchezza. La transizione ad una Blue economy sostenibile, però, va tutelata. Ecco come

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L’oceano sembrerebbe una risorsa infinita, ma la realtà è profondamente diversa. Numerose evidenze scientifiche ci dicono infatti che la salute del mare è fortemente a rischio a causa della pressione esercitata, direttamente o indirettamente, dall’uomo.

L’oceano e i mari sono una fonte di risorse fondamentali per la nostra sopravvivenza e benessere e saranno sempre più indispensabili per affrontare molte delle sfide globali dei prossimi decenni, come la sicurezza alimentare, i cambiamenti climatici e la generazione di energia pulita. Al contempo, ci offrono molteplici opportunità per creare nuovo valore economico e sociale, a oggi ancora poco esplorate.

Giusto per dare un ordine di grandezza, se la Blue Economy – ossia tutte le attività riconducibili all’economia del mare – fosse un paese, essa, con i suoi $3.000 miliardi di valore complessivo stimato dall’OCSE per il 2030, sarebbe la settima economia mondiale. Più grande dell’Italia, per intenderci.

I settori coinvolti comprendono attività industriali e di servizi consolidate come il turismo, la pesca commerciale e la lavorazione del pesce, la cantieristica e la manutenzione navale, l’estrazione di petrolio e gas offshore, le attività portuali, le spedizioni e il commercio marittimo.

Oltre a quelle “tradizionali”, esiste tuttavia anche una serie di attività che possiamo chiamare emergenti, destinate ad assumere maggiore importanza nel prossimo futuro, come lo sfruttamento dell’energia rinnovabile generata dal mare (moto ondoso, maree, alghe, eolico offshore), l’acquacoltura industriale in ambienti marini aperti, o l’utilizzo della biodiversità marina, ancora tutta da mappare, per finalità medico-farmaceutiche. Alcuni di questi settori hanno registrato una crescita esponenziale nell’ultimo decennio: l’eolico offshore, ad esempio, è passato da 20.000 posti di lavoro creati nelle comunità costiere dell’UE a più di 210.000 nel 2018.

Lo sviluppo di una Blue Economy sostenibile potrà favorire la creazione di start up innovative in grado di contribuire a raggiungere i Sustainable Development Goals fissati dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite

Questo sfruttamento ha però un costo elevato. Gli ecosistemi acquatici sono infatti già sottoposti a un fortissimo stress da sovra-sfruttamento, riduzione della biodiversità, acidificazione e inquinamento. Il deterioramento dei mari può avere conseguenze disastrose anche dal punto di vista economico e sociale: già oggi l’Ue stima un costo di quasi €11 miliardi all’anno determinato dall’inquinamento marino in settori come la pesca, l’acquacoltura e il turismo.

Diventa quindi fondamentale promuovere iniziative sostenibili e responsabili, e sviluppare nuove soluzioni tecnologiche e organizzative. Tra queste, quella della Commissione Europea che ha recentemente stanziato, nell’ambito dell’European Maritime and Fisheries Fund (EMFF), più di €15 milioni per il finanziamento di 22 progetti volti ad accelerare e agevolare la transizione verso una Blue Economy sostenibile. Numerose altre iniziative sono state lanciate poi a livello globale, promosse da aziende, investitori e ONG, anche in partnership tra loro (ad es. WWF e Rabobank).

Sarà sufficiente? Sicuramente è un inizio, ma questo percorso richiede di attivare e potenziare reti di innovazione in grado di riunire una varietà di attori pubblici e privati. Esso rappresenta però un’enorme opportunità per le imprese, che potranno sviluppare nuovi mercati, attraverso la ridefinizione dei processi produttivi, dei prodotti e dei servizi in una prospettiva compatibile con l’ambiente. Inoltre, lo sviluppo di una Blue Economy sostenibile potrà favorire la creazione di start up innovative in grado di contribuire a raggiungere i Sustainable Development Goals fissati dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. Insomma, il quadro non è dei più rosei, anzi azzurri, ma i margini per intervenire ci sono ancora.

A cura di Stefano Pogutz e Manlio De Silvio, SDA Bocconi School of Management Sustainability Lab

SpiaggeLe proroghe agli stabilimenti balneari sono inutili e dannose: ecco cosa serve per tutelare le nostre spiagge

La proroga delle concessioni per 15 anni prevista dall'ultima legge di bilancio è solo una trappola che verrà cancellata perché viola la normativa europea. Ecco perché la direttiva Bolkestein invece è proprio quello che ci serve per tutelare le nostre coste (ed anche gli imprenditori)

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Altro che guerra alla Bolkestein. La Direttiva europea più odiata nel nostro Paese sta diventando una trappola per i balneari italiani che impedisce di affrontare le vere questioni che riguardano le coste italiane. Anche in questi giorni, all’apertura della stagione estiva, tutta la discussione ruota intorno alla proroga delle concessioni per 15 anni prevista dall’ultima legge di bilancio e con i primi Comuni che cominciano a dare i via libera. Eppure è del tutto evidente che quel regalo, di cui tanto si vanta il Ministro del turismo e dell’agricoltura Centinaio, è una bomba a orologeria per il settore, perché ben presto sarà cancellata dai tribunali visto che le norme europee impediscono affidamenti con proroghe senza gara “qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali”.

D’altronde che vi sia un problema di limitatezza della risorsa è oramai da tempo evidente in tante località costiere dove gli stabilimenti sono arrivati ad occupare larga parte delle spiagge e per quelle libere rimangono solo i tratti non balneabili per inquinamento. A raccontare le contraddizioni e i problemi di questa situazione sono state associazioni e comitati che hanno convocato una conferenza stampa oggi a Roma per raccontare una iniziativa legale coordinata, con diffide ai Sindaci dal procedere con le proroghe. È una novità che cittadini di diverse parti d’Italia – da Pozzuoli a Ostia, dalla Versilia alla Romagna – si siano messi assieme per portare avanti una battaglia per difendere il diritto dei cittadini di poter godere liberamente di spazi che sono demaniali, e quindi di tutti.

Per Legambiente, che ha contribuito a organizzare questa rete, l’obiettivo è anche di far ragionare gli stessi balneari e la politica rispetto alle risposte da dare ai problemi. Perché le spiagge sono uno straordinario patrimonio ambientale e turistico del nostro Paese quanto mai articolato – sono circa 30mila le concessioni su migliaia di chilometri di coste sabbiose – che non si può governare con proroghe, continuando a chiudere gli occhi su alcune situazioni inaccettabili di illegalità e privatizzazione di fatto delle spiagge a fronte, oltretutto, di canoni ridicoli pagati allo Stato.

Il paradosso è che nella foga di una protesta che va avanti da più di dieci anni nessuno ha ancora davvero letto la direttiva o guardato a quanto nel frattempo sta succedendo negli altri Paesi europei

Le conseguenze di questa realtà le scontano proprio gli imprenditori onesti che stanno puntando su qualità e sostenibilità dell’offerta, che si ritrovano in una battaglia sotto la bandiera del “No alla Bolkestein” con autentici criminali come alcuni concessionari di Ostia. Il paradosso è che nella foga di una protesta che va avanti da più di dieci anni nessuno ha ancora davvero letto la direttiva o guardato a quanto nel frattempo sta succedendo negli altri Paesi europei. Dove non sta affatto avvenendo quanto i balneari paventano, ossia l’arrivo delle grandi multinazionali, ma piuttosto si sta mettendo ordine e premiando un offerta di qualità come del resto prevede la “famigerata” direttiva 123/2006. Che consente agli Stati membri “nello stabilire le regole della procedura di selezione, di considerazioni di salute pubblica, di obiettivi di politica sociale, della salute e della sicurezza dei lavoratori dipendenti ed autonomi, della protezione dell’ambiente, della salvaguardia del patrimonio culturale e di altri motivi imperativi d’interesse generale conformi al diritto comunitario”.

Non è vero che si deve andare verso gare che metterebbero in ginocchio un settore fatto da migliaia di imprese familiari, si può tranquillamente intraprendere un percorso che consenta di mettere ordine nel settore, di fissare regole che tutelino i diritti dei cittadini a godere gratuitamente delle spiagge, e che renda trasparente il processo di assegnazione delle concessioni sulla base di chiari obiettivi, dando così certezze a tutti rispetto al futuro. In questa prospettiva diventa possibile ragionare anche delle sfide sempre più delicate che le coste si troveranno ad affrontare in una prospettiva complessa come quella legata ai cambiamenti climatici, con aumento dei fenomeni di erosione, cicloni più frequenti anche nel mediterraneo e innalzamento dei livelli del mare. Altro che inseguire promesse improbabili continuando a stare sulle barricate a difesa dell’esistente, proviamo a cambiare tutti il modo con cui si guarda al patrimonio costiero italiano.

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