New York. Barack Obama è contrario al “buy american”, non vuole che il piano di rilancio e stimolo dell’economia in discussione al Congresso contenga clausole che impongono alle aziende aiutate dallo stato di usare beni prodotti in America. A favore, però, ci sono il suo partito e i sindacati. Scettici, invece, i repubblicani. Infuriati i partner commerciali europei e asiatici, i quali hanno minacciato ricorsi all’Organizzazione mondiale del commercio. Nel testo approvato dalla Camera c’è scritto che tutte le opere pubbliche finanziate dal governo dovranno utilizzare ferro e acciaio prodotto in America. Nel testo in discussione al Senato, il “buy american” è esteso a tutti “i prodotti manufatturieri” usati nei progetti pubblici.
“Non possiamo mandare un messaggio protezionista”, ha detto martedì Obama durante un’intervista a Fox News. “Penso che sia un errore – ha ribadito alla Abc – Questa è una fonte potenziale di guerra commerciale che non ci possiamo permettere in un momento in cui il commercio sta affondando in tutto il mondo”. Obama si può permettere un sano populismo (ieri ha annunciato un tetto massimo di mezzo milione di dollari per gli stipendi dei manager delle aziende aiutate dallo stato), ma non il neoprotezionismo caro ai democratici e ai sindacati con cui ha flirtato durante le elezioni primarie dell’anno scorso.
Su questo punto gli avversari, più che i repubblicani, sono Nancy Pelosi e Harry Reid, i leader del partito democratico al Congresso, ai quali Obama sta già insistentemente chiedendo di tagliare dal piano tutte le misure sociali e clientelari che non sono direttamente destinate a stimolare l’economia. I repubblicani sostengono che almeno 200 dei 900 miliardi siano spesa discrezionale, soldi che non servono a creare posti di lavoro né a rimettere in modo l’economia, ma solo a soddisfare interessi particolari e i gruppi di pressione del mondo liberal.
L’equilibrio è delicato. Il piano è passato alla Camera con i voti di tutti i democratici, tranne undici deputati moderati (i “blue dogs”) e senza i repubblicani. Al Senato la situazione è più difficile, perché i repubblicani hanno i voti per rallentare con l’ostruzionismo il processo di approvazione. Anche qualche senatore democratico, come Ben Nelson, non è convinto del piano Pelosi e Reid e sta lavorando con i repubblicani a un testo di mediazione, senza i finanziamenti che non servono a rilanciare l’economia.
L’obiettivo principale di Obama è di spendere subito i primi soldi e, per questo, ha bisogno di firmare la legge entro il sedici febbraio. Il consenso repubblicano gli è necessario non solo per accelerare i tempi, ma anche per consolidare l’immagine di leader bipartisan, per condividere con l’opposizione le responsabilità del piano, nel caso non dovesse funzionare, e perché su alcuni punti, come sul “buy american”, gli serve a bilanciare l’attivismo di Pelosi.
Obama si sta accorgendo che il rapporto con la speaker della Camera sarà difficile. Pelosi è una leader rigidamente di parte, eletta a San Francisco e non interessata a mediazioni con l’opposizione. L’essenza della politica e del successo di Obama, invece, è quella di sanare le divisioni ideologiche, sicché lo scontro è inevitabile. La rivista Time ha scritto senza tanti giri di parole che stiamo assistendo a un “Obama contro Pelosi”, mentre uno degli undici deputati democratici che ha votato contro il piano alla Camera ha detto di aver ricevuto “un incoraggiamento dalla Casa Bianca” per la sua lettera di critica alla Pelosi per la gestione del piano di rilancio dell’economia.
5 Febbraio 2009