Camillo di Christian RoccaLa dottrina Obama delle scuse

Primi cento giorni di politica estera del presidente. Meno idealista di Bush, ma più pragmatico. Apre all’Iran, bombarda i talebani. Gli scontenti: “Troppa autocritica, fa bene a lui ma non agli Stati Uniti”

New York. Sono trascorsi tre mesi, i fatidici 100 giorni, dall’insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca. La sua presidenza, fin qui, si è concentrata sull’economia, ma dopo il viaggio in Europa, quelli in Turchia, in Iraq e in Messico, gli incontri con i capi di stato dei venti paesi più importanti del pianeta e il summit delle Americhe della scorsa settimana, c’è già chi comincia a definire e a formulare una “dottrina Obama” meno idealista rispetto a quella di George W. Bush, ma più pragmatica. Non è un caso che domenica, sul New York Times, sia stata criticata da due militanti afghani dei diritti umani e lunedì, sulla Stampa, lodata da Henry Kissinger. Tutti hanno notato un cambiamento di tono e di approccio rispetto al predecessore, e molto si è discusso dell’ossequioso inchino al re saudita, della calorosa stretta di mano al caudillo venezuelano Hugo Chávez e della naturalezza con cui il neopresidente è pronto a riconoscere gli errori passati dell’America.
Obama ha spostato l’asse della politica estera americana sulla disponibilità al dialogo con i nemici e gli avversari, senza però cedere di un millimetro quando ha dovuto affrontare le prime mini crisi internazionali con i pirati della Somalia, con la conferenza antisemita dell’Onu a Ginevra, con i talebani rifugiati in Pakistan e colpiti da bombe a cadenza settimanale, con la provocazione missilistica nordcoreana cui ha risposto con una reazione di tipo bushiano. Il punto centrale della politica di aperture obamiane è l’Iran, ma di fatto non è ancora cominciata ed è quindi troppo presto per dire che cosa riuscirà a produrre o se sarà destinata al fallimento. Obama, però, ribadisce che non accetterà una Repubblica islamica dotata di armi nucleari e ha chiesto a Teheran di rilasciare la giornalista americana arrestata con l’accusa di spionaggio.
Dick Cheney, vicepresidente di Bush, è il più autorevole dei critici della dottrina Obama: “Trovo inquietante il fatto che sia andato in Europa e si sia scusato, sia andato in Messico e si sia scusato e così via”. Pete Wehner, direttore dell’Ufficio di iniziative strategiche della Casa Bianca di Bush, è ancora più duro e dice che “la dottrina Obama consiste nel criticare i presidenti del passato, democratici e repubblicani, nel chiedere scusa per le colpe americane del passato, quelle reali e quelle immaginarie, sia agli alleati sia ai nemici degli Stati Uniti, in patria ma meglio all’estero, nella speranza che in questo modo Obama possa parlare con maggiore chiarezza e forza morale. L’obiettivo prevalente della dottrina Obama è far sembrare buona la persona da cui la dottrina prende il nome, piuttosto che la nazione che è stato chiamato a rappresentare”.
Domenica scorsa, per la prima volta, è stato proprio Obama a descrivere i due punti fondamentali della sua politica estera, rispondendo a una domanda di un giornalista: “Punto numero uno: gli Stati Uniti restano la nazione più potente e ricca della terra, ma siamo soltanto una nazione e i problemi che ci troviamo di fronte – droga, cambiamento di clima, terrorismo – non possono essere risolti soltanto da un paese. Quindi se si comincia con questo approccio, si è propensi ad ascoltare non solo a parlare”. Il “punto numero due” riguarda i principi universali di libertà e democrazia da promuovere anche e soprattutto “con l’esempio”, quindi anche con la capacità di riconoscere gli errori. Obama ha ammesso che gli alleati europei non cambieranno posizione sull’Afghanistan per il solo fatto che lui è molto popolare in Europa e rispettoso dei suoi governanti, ma “avendo stabilito relazioni migliori, nella popolazione c’è più fiducia nel fatto che lavorare con gli Stati Uniti sia conveniente e magari ora i leader cercheranno di fare di più di quello che avrebbero fatto”.
L’editorialista del Financial Times, Clive Crook, ha spiegato che uno degli aspetti del pragmatismo di Obama è quello di costruire alleanze, rasserenare le antiche inimicizie e portare avanti gli interessi americani con la cooperazione, invece che con il litigio: “Il problema è che gran parte dei presidenti americani, compreso il predecessore di Obama, ha avuto lo stesso atteggiamento fino a quando il mondo non li ha presi a botte”.

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