Se c’è una cosa chiara, nel conflitto libico, è che di chiaro c’è ben poco. Soprattutto, sembra mancare una strategia coerente da parte dei paesi occidentali che si sono imbarcati nell’operazione. Come insegnava Clausewitz, la guerra non è che una prosecuzione della politica, nella quale agli abituali strumenti della diplomazia se ne aggiungono altri, quelli militari. In poche parole, si fissano obiettivi politici e li si persegue militarmente, per ottenere alla fine del conflitto un assetto pacifico capace di rispecchiare gli interessi dei vincitori. Il problema, in Libia, è che questi obiettivi politici sono, quanto meno, misteriosi. Gheddafi deve rimanere al potere o no? Si cerca un governo democratico o uno che garantisca stabilità? Il paese deve rimanere unito o sarebbe meglio dividerlo in due come ai tempi dei romani?
A fare un po’ di luce su tutti questi interrogativi ci hanno provato, in una lettera al New York Times, i leader dei tre paesi che, nel conflitto, hanno avuto un ruolo di maggiore rilevanza. Obama, Cameron e Sarkozy hanno preso carta e penna e messo nero su bianco un appello dai toni bushiani e dalle finalità ambigue. «Non dobbiamo scordare le ragioni che hanno obbligato la comunità internazionale ad agire», scrivono i tre, cioè le violenze perpetrate da Gheddafi contro il suo popolo e le richieste d’aiuto al mondo giunte dall’opposizione libica. Tralasciando il fatto che queste siano le caratteristiche che accomunano un po’ tutti i regimi dittatoriali e che non facciano della Libia un caso particolare, la parte interessante della lettera è quella che tratteggia le prospettive per il futuro. «Il regime deve ritirarsi dalle città che tiene sotto assedio». Poi, però, finché il Raìs dovesse rimanere al potere, la NATO dovrebbe restare attiva sul territorio libico per proteggere la popolazione civile. Insomma, la Libia dovrebbe divenire una sorta di paese commissariato, fino all’arrivo di «un processo costituzionale inclusivo» (quale?) e «una nuova generazione di leader» (chi?).
La situazione, quindi, rimane confusa a causa della contraddizione alla base dell’intervento dei volenterosi. Ufficialmente non si può rimuovere Gheddafi, dunque si rimane a proteggere la popolazione civile – cioè si mantiene la no fly zone e la pressione militare della NATO – finché il Raìs non si convince ad andarsene da solo.
In passato la combinazione tra mediazione politica, pressione esercitata attraverso i bombardamenti e operazioni di terra lasciate a forze locali ha caratterizzato gli interventi occidentali di crisis management e ha prodotto, talvolta, risultati significativi. Stavolta, però, l’azione dei volenterosi è carente a tutti e tre i livelli. I bombardamenti sono confusi, mancano di coordinamento e, se gli americani non vi prendono parte, non possono essere effettuati nelle città senza enormi danni collaterali. Gli insorti, da soli, mancano dell’addestramento e dell’equipaggiamento necessari per fronteggiare le truppe di Gheddafi.
In particolare, però, a mancare è il primo punto, una strategia politica condivisa. Su quest’assenza pesa soprattutto la divergenza tra gli interessi dei paesi occidentali. Gli Stati Uniti sembrano poco interessati alla Libia, e anzi vedrebbero di buon occhio un parziale disimpegno dalla regione a favore di una maggiore assunzione di responsabilità da parte dei loro alleati. Sarkozy, fin dai primi mesi della sua amministrazione, ha fatto del Nord Africa l’obiettivo principale della sua politica estera e le rivolte in Libia gli hanno fornito l’occasione per cambiare gli equilibri in uno dei paesi del Maghreb in cui la Francia fatica a estendere la propria influenza. Agli inglesi non dispiace un ammorbidimento dell’asse franco-tedesco in Europa, così come un nuovo mercato per la BP, duramente colpita dal disastro del Golfo del Messico. L’Italia, infine, riluttante a intervenire e a prendere una posizione netta per via della sua dipendenza dall’energia libica, si è aggregata alla compagnia quando si è resa conto di non poter più impedire l’intervento, non potendosi permettere di rimanere esclusa dal tavolo in cui potrebbe decidersi il futuro della Libia. Insomma, c’è da controllare Sarkozy più che Gheddafi.
Ognuno ha i suoi obiettivi e, dietro le quinte dei proclami umanitari, ognuno spera in un assetto diverso per la Libia post Gheddafi. Per calmare le acque, con ogni probabilità, non basterà nemmeno convincere il Raìs a farsi da parte.
Riccardo Cursi
immagine da Panorama.it