Nel parlare di emigranti – tunisini oggi, italiani ieri – quasi sempre si dimentica che essi sono degli scommettitori. Gli emigranti scommettono sul futuro migliore, senza sapere quale sarà il futuro. Essi si comportano proprio come chi cercava l’India navigando da occidente, o come chi fonda un’impresa, o compra azioni, o chi studia per diventare dottore (1).
Un titolo di debito di uno stato serio ha un valore abbastanza certo. Si conoscono in anticipo le cedole e si sa che alla scadenza il capitale nominale è rimborsato. L’incognita è l’inflazione. Ognuno ha il proprio tasso di inflazione. Vi sono dei problemi legati al calcolo dell’inflazione. Comunque sia, se l’inflazione è bassa e prevedibile, il titolo di uno stato serio ha un valore quasi «certo». Non possiamo dire lo stesso per un’azione. Non sappiamo come andrà l’economia – potrebbe andar bene o male – e, soprattutto, non sappiamo come andrà una singola impresa; la quale, finanziariamente parlando, è rappresentata soprattutto dalle azioni che emette.
L’economia nel suo complesso può essere immaginata come composta dai diversi andamenti delle imprese che, nell’aggregato, si elidono. E dunque le sue escursioni saranno modeste. Se non proprio modeste, come accade negli ultimi tempi, certamente inferiori a quelle dell’impresa singola. L’impresa singola potrebbe, infatti, diventare un gran cosa, vivacchiare oppure fallire.
I fondi comuni di investimento sono nati dall’idea che sia possibile eliminare sia i rischi sia i vantaggi delle scommesse singole. Eliminando le «code» della distribuzione normale di probabilità, alla fine si fanno investimenti meno rischiosi. Anche le obbligazioni con in pancia i famosi mutui ipotecari sono nati seguendo lo stesso principio.
Insomma, il valore di un’azione è sommamente incerto, perché incorpora una quantità enorme di futuro. E il futuro è ignoto. Supponiamo di pagare un’azione 20 volte gli utili che ha registrato nell’anno in corso. Stiamo comprando qualcosa che ha un orizzonte di ben 20 anni. Possiamo immaginare che cosa accadrà l’anno prossimo – forse –, ma non che cosa accadrà per i successivi diciannove anni. Urge un esempio. Anche perché in questo modo si vede che le scommesse, che nel caso delle azioni sembrano una bizzarria, vengono fatte tutti i giorni.
Immaginiamo uno studente che si indebita per frequentare l’università: scommette sui redditi che otterrà dalla professione, nei successivi 40 anni. Supponiamo che lavori dai 25 ai 65 anni: scommette che i suoi redditi saranno superiori al valore del debito che ha acceso. Se, invece che con il debito, studia con i denari dei genitori, dovrebbe fare lo stesso il conto: i denari dei genitori investiti in titoli di stato dopo 40 anni varranno X. E il confronto va effettuato fra X e i redditi guadagnati dallo studente ormai diventato professionista. Se alla fine si è guadagnato meno, le risposte possibili sono due: 1) è stata una scommessa sbagliata; 2) la soddisfazione di avere «il figlio dottore» è maggiore del suo costo finanziario.
Si guarda con stupore ai redditi degli artisti: essi guadagnano cifre impensabili. Eppure per ogni artista giunto al successo, cento servono mestamente panini, confessando – imbarazzati – che si tratta solo di un lavoro temporaneo. Se è uno a guadagnare uno sproposito e cento molto poco, abbiamo una distribuzione di probabilità che attira solo i coraggiosi oppure gli incoscienti. Gli altri, i pavidi o i coscienziosi, faranno i dentisti – nessuno di loro sarà mai Brad Pitt, ma nessuno servirà panini in via temporanea.
Le azioni sono simili agli artisti o ai dentisti? Le azioni singole sono simili agli artisti, ma i fondi comuni le fanno diventare dentisti, questa è la risposta standard dell’industria finanziaria. Insomma indebitarsi per studiare oppure comprare un’azione non è diverso. Ci vuole fiducia. Si deve scommettere sul futuro migliore, senza sapere quale sarà il futuro. Ossia, si deve in partenza scommettere – e «scommettere» è il termine appropriato – che la probabilità che le cose vadano bene è maggiore della probabilità che vadano male. Possiamo chiamarla la sindrome di Rossella O’Hara, l’eroina di Via col vento.
Chi ha paura del futuro, invece, deposita i propri denari alle poste e scommette che non vi possa essere inflazione. Chi non ha paura fa l’imprenditore oppure compra azioni. Perché alcuni facciano così è la prima domanda. Hanno qualcosa, che ignoriamo, che li spinge a vedere il futuro come un tempo che sarà migliore del passato. Questa è una domanda che va al di là dell’economia, è una domanda «meta-economica». Perché alcuni – gli imprenditori, gli emigrati – abbiano più fiducia nel futuro di altri, perché nelle sale di trading ci siano gli esagitati, perché le donne analiste facciano previsioni finanziarie meno esagerate degli uomini analisti, eccetera, sarebbe interessante sapere.
Isabella impegna i propri gioielli, e, ricevuto un prestito adeguato, finanzia tale Cristobal Colon – un marinaro che pensava guardando inebetito un uovo –, il quale, con sole tre caravelle, punta a occidente alla ricerca di Zipangu, la mitica terra dell’oro. Fin dalle origini, l’America si basa su investimenti che non possono dirsi né «sensati» né «prudenti». In un mondo di investitori prudenti, nessuno avrebbe finanziato la ricerca di quello che poi sarebbe diventato il più grande affare della storia, il Nuovo Mondo. Il quale Nuovo Mondo si è sempre tuffato, con grande passione, fra le innovazioni, dal treno al motore a scoppio alle imprese hi tech, fino agli ormai famosi mutui subprime. Vedremo se, come ogni corsa all’oro che si rispetti, alla fine i ladri saranno acciuffati dallo sceriffo, mentre, ubriachi, cantano davanti al pianoforte in un bordello.
(1) http://www.centroeinaudi.it/ricerche/leconomia-come-scommessa.html