Si parla dello scontro fra Putin e Medvedev. Laddove si fa notare che la vera mossa che apre le ostilità è lo scontro sui ministri che ricoprono delle cariche nei consigli delle grandi società energetiche. Una commistione – secondo Medvedev – non accettabile. Si può pensare che il primo ministro e il presidente rappresentino dei progetti alternativi e non solo due ambizioni? Lo scopriremo. Un progetto e un potere c’è – quello di Putin, l’altro è in fieri – quello di Medvedev.
Il «putinismo» è quel sistema che fonde l’élite che viene dagli apparati di sicurezza con quella delle grandissime imprese dell’energia, le quali, a loro volta, controllano una buona parte del sistema mediatico. Questa fusione è il «potere forte» russo. Il potere politico aiuta la crescita del settore energetico, che fornisce in cambio le risorse al potere politico, che, a sua volta, isola i comunisti e i liberali, accusando i primi della decadenza dell’Unione Sovietica, i secondi della miseria e la «svendita» dei beni dello stato ai tempi di Yeltsin. Insomma, il putinismo è una specie di convergenza al centro. Un centro non da intendere come moderatismo, come se fosse un democristiano stretto fra comunisti statalisti e liberali libertini, ma come il ritorno della forza della nazione. I comunisti e i liberali sono in qualche modo degli universalisti, non dei veri nazionalisti. Pensano, infatti, che chiunque possa godere dei beni del progresso.
Il putinismo, per come è strutturato – una «verticale di potere», infastidita dalle molte lungaggini del parlamentarismo, che privilegia la concentrazione delle grandissime imprese sotto l’ombrello statale –, non riesce a favorire la crescita di una società civile avanzata, fatta di imprese medie e piccole, e di ceti che svolgono molte attività professionali, capace di promuovere uno sviluppo indipendente dall’energia.
L’ipotesi è che Medvedev voglia proprio rappresentare la crescita di una società civile avanzata che faccia leva sull’energia per sviluppare un’economia diversificata. Ma per quale motivo, è davvero necessario?
Le esportazioni russe sono pressoché tutte di gas e petrolio, mentre viene importato pressoché tutto, dai cavoli alle automobili. Un sistema che può anche funzionare, se la popolazione è scarsa e i lavori manuali vengono svolti da immigrati senza diritti. Ma la Russia non è un emirato. Non può optare per il modello dell’emirato né per quello cinese. Nel primo caso la popolazione è troppo numerosa, e, comunque, la grande ambizione lo impedisce. Nel secondo, manca un apparato industriale distribuito in molti settori, e che cresca col contributo degli investimenti esteri.
Insomma, il sistema politico russo – per guardar lontano – dovrebbe inventarsi un terzo modello, che combini la ricchezza energetica con lo sviluppo diffuso.