Paul Harding, L’ultimo inverno, Neri Pozza, 2011
Un’ardua sfida per il traduttore questo piccolo libro tanto più complesso quanto poco voluminoso. Iniziamo dal titolo. L’originale Tinkers è molto difficile da rendere , anche se uno sforzo maggiore ce lo saremmo potuti aspettare da Neri Pozza. In inglese tinker significa stagnino, calderaio ambulante, oppure semplicemente sta a indicare, come verbo (to tinker), l’azione di cercare di riparare qualcosa, di passare il tempo armeggiando attorno a qualcosa di rotto. Al plurale, tinkers è la chiave che ci porta subito dentro il romanzo e, soprattutto, dentro il linguaggio e lo stile dell’americano Harding. La storia: nella casa che ha costruito con le proprie mani nel Connecticut, George Crosby, ottantenne , sta morendo di cancro, attorniato dalla famiglia e dal ticchettio degli innumerevoli orologi a pendolo che, da quando è in pensione, ripara con passione maniacale. Nel dormiveglia indotto dai farmaci, le allucinazioni di George si concentrano sul “mistero personale” che ha segnato la sua vita: l’improvviso abbandono della famiglia da parte del padre, Howard, da cui George ha ereditato la straordinaria manualità. La memoria di George, confusa, e probabilmente anche fallace, ci trasporta dentro la storia di Howard, che negli anni Venti, gira il freddo Maine sul calesse trainato da un mulo, per vendere paccottiglia varia, riparare pentole, prestandosi all’occorrenza come cavadenti e barbiere . Una storia di povertà, di malattia incompresa – Howard è epilettico – di crudeltà e durezza, ma per lunghi tratti anche di straordinaria poesia, soprattutto nella descrizione di una natura ancora incontaminata – quella che Howard vede durante i suoi percorsi – popolata di ogni sorta di vita animale e vegetale, indifferente alla sofferenza di un’umanità per la quale la sussistenza è una conquista quotidiana.
E, dopo i tinkers George e Howard, veniamo al vero tinker per eccellenza, lo scrittore stesso, che ci descrive con precisione meticolosa, quasi maniacale quanto quella di George e Howard, attività semplici o complesse o assurde quali la pulitura del meccanismo di un vecchio orologio, lo scoppio di una crisi epilettica, la costruzione a mano di un nido (con due triangolini di stagno incollati sulle dita, per creare un finto becco d’uccello…).
Ma soprattutto Harding è un artigiano del linguaggio – nella più pura accezione del creative writer – che intreccia le parole in un insieme lirico, affascinato e incantato egli stesso dall’onomatopeia, dalla ripetizione dei sinonimi e degli aggettivi fino al punto da utilizzare parole inverosimili e improbabili semplicemente , si direbbe, per la piacevolezza del loro scorrere sulla pagina e nella mente del lettore. Non tutti apprezzeranno questa fusion fra prosa e poesia, lontana dalla narrativa minimalista e intimista (come ad per esempio quella di Elizabeth Strout, che vinse il Pulitzer nel 2009 con Olive Kitteridge), e, ancor più, dal romanzo d’azione. Ne L’ultimo inverno la trama è inconsistente mentre schizzano in primo piano la poetica della natura e la densità di alcuni spunti filosofici, in particolare la memoria come chiave per sopravvivere alla morte e per collegare fra loro le generazioni (la storia dei Crosby narrata da Harding risale al nonno paterno di George, pastore metodista affetto da dementia senile).
Paul Harding ha vinto il Pulitzer for fiction l’anno scorso per questo primo libro, che fu rifiutato da numerosi editori prima di essere accettato dalla piccola casa editrice del Bellevue Hospital di New York. Harding era così sconosciuto ( e ignorato) che gli organizzatori del Pulitzer si dimenticarono di avvisarlo e lesse della sua vittoria sul sito del premio.