Le abbiamo viste in TV, in rete, sui giornali di tutto il mondo. Hanno turbato, sconvolto, indignato, ma forse anche reso giustizia a chi, come noi, è abituato a sopportare lo stato di immunità perenne di cui gode la casta famigerata degli intoccabili, rari esemplari di una specie antropologica immune agli effetti delle azioni e delle passioni che governano, nel bene e nel male, la vita degli uomini comuni.
Bene, nella notte fra sabato e domenica scorsi, quest’impenetrabile barriera di privilegi è crollata sotto il fuoco sincronizzato dei flash.
L’ormai ex-presidente del Fondo monetario internazionale, Dominique Strauss-Khan, uno degli uomini politici più potenti della terra, è stato “condannato a morte” dalla fotografia. Nessun altro tribunale al mondo avrebbe potuto pronunciare una sentenza tanto severa quanto repentina, anche se del tutto priva di valore giuridico. E, infatti, sebbene i fondati sospetti di recidività supportati da una biografia non immacolata, l’assenza di un solido alibi scagionante, e il continuo emergere di nuovi indizi dalla scena e dai retroscena del fattaccio, DSK, agli occhi della legge, rimane ancora un imputato in attesa di giudizio. Nessun verdetto, nessuna condanna: la certezza del diritto, in un sistema garantista come quello statunitense, è un valore sacro e incrollabile.
Ma comunque andrà a finire, stando alla nostra percezione dei fatti, DSK è già colpevole. Anzi è il colpevole.
La drammatica passerella fotografica che, con estrema dovizia di particolari e inquadrature, ce lo ha fatto vedere all’uscita dal distretto di polizia, mentre cammina scortato e ammanettato come un delinquente di strada per andare a trascorrere la prima nottataccia in guardina, e poi gli scatti presi il giorno dopo nelle aule del tribunale di New York durante la prima udienza, dove l’eminente politico francese, con il viso stravolto e rabbuiato, è comparso davanti a milioni di persone dentro a un misero impermeabile scuro certamente inadeguato al suo rango ma perfetto per il ruolo del temibile criminale sotto processo, hanno proposto l’ennesima replica di uno spettacolo evergreen: il racconto-seriale della realtà nel secolo delle immagini mediatiche.
Ce l’ha insegnato Andy Warhol, la fotografia e i suoi derivati trasformano la persona in icona, non appena la inghiottono nella spirale mass-mediatica; trasformano in modo irreversibile l’identità privata in volto pubblico, rivestendola di stereotipi, sogni, ideologie, fantasie, deliri di massa destinati ad alimentare l’immaginario collettivo. Non c’è via di scampo: quando finiamo in una fotografia, come suggeriva Roland Barthes, diventiamo spettri, entità separate dal corpo, prive di quell’autenticità che crediamo definisca una volta per tutte la nostra esistenza nel mondo. Questa pseudo-morte, però, è soltanto momentanea. Una volta diventati immagine trasmigriamo in una nuova vita: quella delle maschere e delle figure, chiamate, spesso a loro insaputa, a calcare le scene di una grande rappresentazione narrativa che i Media, i soli registi supremi, non smetteranno mai di mandare in onda. A qualcuno tocca la parte del poliziotto buono, il difensore della legge, a qualcun altro quella del criminale cattivo da catturare e giustiziare. A DSK stavolta è toccata la seconda.