Forse il giudizio è un po’ troppo tranchant ma il writer torinese, la cui opera è immortalata qui sopra, indovina (o conosce) un pezzo di verità.
Fortunatamente la scuola non fa tutta schifo. E di certo il Ministro non può essere assolto con formula piena per la sua politica educativa fatta essenzialmente di un angoscioso quanto apparentemente disinformato contenimento della spesa. Ma la scuola italiana non se la passa bene attraversata com’è da profondi divari in termini di opportunità di accesso all’istruzione e di qualità degli apprendimenti.
Divari che si declinano lungo numerose direttrici e creano disuguaglianze tra studenti in base:
- al genere, con le ragazze ancora svantaggiate negli apprendimenti in matematica e nelle discipline scientifiche e i ragazzi svantaggiati su tutto il resto (fino a essere esposti a un maggior rischio di ripetenze e abbandoni);
- all’estrazione socio-culturale, con una scuola formalmente aperta a tutti ma sostanzialmente incapace di promuovere la mobilità sociale degli studenti con background più svantaggiati;
- all’origine, con gli studenti immigrati di “generazione 1,5” (arrivati in Italia in età scolare) decisamente penalizzati in termini di apprendimenti rispetto ai loro pari italiani, e le “seconde generazioni” (nati in Italia da genitori stranieri) che, a differenza di ciò che succede negli altri paesi a lunga tradizione immigratoria, sembrano essere più simili ai loro pari di recente immigrazione che ai nativi;
- all’appartenenza geografica, con livelli di apprendimento così differenziati tra Nord e Sud del paese da far pensare a sistemi scolastici distinti nonostante la scuola sia ancora rigidamente gestita dal centro (non come la Sanità regionalizzata).
L’elenco, purtroppo, è solo esemplificativo e non esaustivo. E il tutto è ulteriormente complicato da cambiamenti epocali che investono la scuola in Italia e all’estero in egual modo.
L’avvento delle nuove tecnologie, infatti, oltre a mettere in crisi l’idea che la scuola sia l’unica agenzia formativa a disposizione degli individui, determina l’arrivo sui banchi della prima generazione di nativi digitali. Il quadro è il seguente: ragazzini i cui stili cognitivi sono influenzati per la prima volta dai dispositivi tecnologici che imparano ad usare sin dai primi anni di vita fronteggiati da un esercito di insegnanti immigrati digitali che a volte a malapena padroneggiano un telefonino.
Insomma di motivi per tornare a occuparsi seriamente di scuola dopo anni di contrapposizioni ideologiche ce ne sono. E l’unico modo per uscire dall’ideologia è riordinare i termini delle questioni e portare evidenza empirica a supporto delle tesi e delle proposte d’intervento. Possono sembrano concetti banali, ma non lo sono.
Ad esempio, perché quando si parla di scuola si discute sempre e solo di questioni legate alle risorse (organici, dotazioni di strumenti educativi, tempo scuola)? Forse perché è implicito che una modifica delle risorse (input) ha un’influenza sui risultati del processo educativo (outcomes)? Eppure raramente si parla dell’obiettivo quando si propone un intervento, e ancora più raramente vengono predisposte le opportune valutazioni di impatto. Non sapremo mai se ridurre il numero di docenti peggiorerà la qualità degli apprendimenti degli studenti come sostengono alcuni o non la intaccherà come sostiene chi attua questo intervento. Così come non sapremo mai se le poche risorse spese nella formazione dei docenti (iniziale e in itinere) si traducano in migliori opportunità educative per gli studenti o siano piuttosto spese sostanzialmente inutili. La conseguenza di questa ignoranza è che torneremo ciclicamente a parlare di queste cose senza aver appreso nulla dall’esperienza e senza avere la possibilità di fare alcun passo in avanti.
Oltre a citare l’evidenza disponibile e a portare, quando possibile, qualche dato inedito su scuola e università, in questo blog proveremo ad avanzare delle proposte coerenti con quello che si sa o si può sapere sui processi educativi e sulle criticità di sistema. Lo facciamo da un blog non perché sposiamo visioni particolarmente velleitarie sul potere salvifico di internet o sulle proposte che nascono dal basso, ma perché crediamo che chiunque si proponga di contribuire al dibattito pubblico, su qualsiasi media, debba preoccuparsi di essere il più possibile rigoroso e propositivo. Se poi la bontà delle idee e delle argomentazioni renderà più manifesto e percepibile il segnale rispetto al rumore di fondo, come direbbero gli ingegneri, avremo dato un contributo ulteriore.
Insomma, vogliamo promuovere un approccio “hands on” anche su questi temi, in base al quale ci si sporca le mani, si entra nel merito delle questioni e si lasciano da parte, per quanto possibile, i pregiudizi. Quello che non va più bene è il tipico approccio “hands off” che accomuna quelli che parlano di scuola credendo di saperne qualcosa solo perché ci sono stati anche loro da ragazzini (e magari hanno 70 anni), quelli del si stava meglio quando si stava peggio, quelli che intervengono ignorando colpevolmente (e a volte consapevolmente) quello che la ricerca nel corso degli anni ha appurato. Ma anche quelli che, appunto, “nessuno tocchi la scuola”. Come se la scuola italiana vivesse in situazione idilliaca, se non fosse per le minacce di un ministro poco competente.
Una battaglia di retroguardia che anche un writer torinese ha gioco facile nello smascherare.